Ci voleva una donna abituata a lottare per affermare le proprie qualità nella professione (anzi, in tutte e due le professioni che ha attraversato nella sua vita), sfidando gli stereotipi di genere in ambienti storicamente “ostili”, per affrontare un tema che richiede molto coraggio, oltre a una profonda competenza. «Storie di narcisismo maligno e psicopatia» (Alpes Italia editore) di Daniela Cataldo, la sua ultima fatica letteraria, non è solo un saggio che scoperchia un mondo ancora poco esplorato e difficile, ma anche un viaggio: dentro gli esseri umani e anche dentro le nostre paure, sia dal punto di vista della “vittima” sia dal punto di vista dello stesso “carnefice”.
Daniela Cataldo è psicoterapeuta e psicopatologa forense, cultrice della materia in psicoterapia forense all’Università romana Lumsa. Ha un passato di giornalista di cronaca nera e attualmente è collaboratrice di Metropoli.Online. Nel suo libro indaga, attraverso casi clinici da lei trattati nel corso della sua attività professionale, gli aspetti del narcisismo in tutti i suoi risvolti, sia quelli più socialmente “accettabili” sia quelli più gravi.
Una sorta di giallo, che conduce il lettore in un mondo ancora molto misterioso, almeno per la maggior parte delle persone, e poco esplorato. Lo fa con il suo stile, intenso e coinvolgente, indice di quella passione che ha sempre animato il suo attraversare due professioni lungo i loro percorsi più umanamente tortuosi e duri.
Perché la scelta di scrivere questo libro? È forse legato alla crescente emergenza della violenza di genere?
«Questo libro è nato come manuale per gli studenti della cattedra di Criminologia clinica, psicopatologia e psicoterapia forense della Lumsa, dove sono cultore della materia. Parla di casi clinici che ho trattato durante la mia attività professionale. Ovviamente, ogni elemento che rendesse riconoscibili i pazienti è stato alterato o eliminato. Ho scelto questa formula perché ho preferito un approccio meno teoretico a favore della pratica. Scrivendo, mi sono resa conto che, trattandosi di storie, il manuale si prestava anche ad una lettura per “non addetti ai lavori”. Chi non deve sostenere gli esami universitari, in altre parole, può leggere solo le storie».
Cosa l’ha spinta a rendere le storie dei suoi pazienti fruibili a tutti?
«Il fatto che, se si parla di violenza di genere, si pensa agli occhi neri, ai lividi, al femminicidio e, comunque, a una violenza fisica che qualsiasi medico di pronto soccorso può refertare. In realtà, esiste una violenza che non si vede e che danneggia altrettanto la vittima: quella psicologica. Ricevo messaggi di persone che hanno letto il mio libro e che non si erano rese neanche conto di essere state vittime di violenza e che si sono riconosciute in alcune situazioni, che avevano in loro generato malessere ma non avevano compreso la ragione del disagio. Sapevano solo che provavano inquietudine. Ciò accadeva non solo all’interno dell’ambiente domestico, ma anche in quello lavorativo o, comunque, nei vari ambiti nei quali si dispiega l’esperienza di vita».
Il suo libro abbatte molti luoghi comuni in merito alla violenza.
«Per questo ho deciso di rendere fruibile a tutti: scrivendo, ho realizzato che situazioni che avevamo visto nei film non sono straordinarie, purtroppo».
I tre casi clinici parlano di persone socialmente affermate. Perché questa scelta?
«Ho cercato di mostrare come siano, talvolta, soggetti insospettabili a compiere determinati atti. È sbagliato pensare che certi fatti avvengano in contesti degradati, come è errato credere che la vittima sia fragile».
Si spieghi meglio.
«L’offender ricava la propria autostima nel distruggere l’altro: lo umilia in pubblico, nega strenuamente la realtà fino a quando lo erode, letteralmente, nelle sue funzioni mentali. Possono essere necessari anni, ma è ciò che avviene. Se la vittima fosse fragile non resisterebbe».
Allora perché non lascia chi la maltratta?
«Perché, quando si rende conto che si tratta di maltrattamento, la vittima è ormai assoggettata al carnefice. Sa cosa sarebbe giusto fare ma è ormai convinta di essere un’incapace e, per questo, crede che non sopravviverebbe nel mondo senza di lui. Eppure, era capace».
Nella sua esperienza, la vittima di violenza psicologica quando chiede aiuto?
«Quando si ammala. In genere soffre di continue infiammazioni, deperisce, prende peso… Nessun medico si spiega quale sia il problema. Possono subentrare anche malattie autoimmuni, dolore cronico, eccetera».
Esiste una violenza agli uomini?
«Certamente. È per questo che non amo l’utilizzo del termine “violenza di genere”: lascia intuire che sia legata alle donne, invece si stima che esista un numero non censibile che riguardi gli uomini vittime di violenza».
Perché gli uomini non denunciano?
«Perché anche essi sono vittime di stereotipi, per i quali vengono derisi se denunciano una donna. Neanche a dirlo, la derisione e lo scherno sono una violenza secondaria e che fa sentire la vittima ancora più disperata e sola. Credo di poter dire che ogni persona porti, quando viene in studio da noi terapeuti, una grande sofferenza. Il legame tra terapeuta e paziente è comunque un legame empatico. Anche il paziente più indisponente sta, con il suo fare esasperante, mostrando il suo dolore. Sa farlo solo così. Sta a noi saperlo aiutare».