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“Stanze dei bottoni” e rispetto della vita e della dignità di ogni persona

Valore del lavoro, l'imperativo a non fallire, decisioni senza appello. C'è anche questo dietro al suicidio di un uomo licenziato a 55 anni

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«Amava il suo lavoro». Questo è quello che, secondo quanto riferiscono le cronache giornalistiche, commenta addolorato chi conosceva Paolo, l’uomo di 55 anni originario del padovano che, domenica scorsa, si è tolto la vita nella sua abitazione dopo essere stato licenziato. Un licenziamento arrivato alla fine di luglio, dopo una trentina d’anni di lavoro sempre per la stessa azienda, a causa di quella che colleghi e sindacalisti definiscono una mancanza davvero lieve: un errore nell’applicazione delle procedure nella sua sede di lavoro, a Mestre, che aveva prodotto un danno, riparabilissimo, di sole poche centinaia di euro.

Una decisione, quella di togliersi la vita, presa dopo che neanche l’intermediazione della Cgil, alla quale il lavoratore si era rivolto, era riuscita ad ottenere una revisione della decisione da parte dell’azienda. E che ha gettato nello sconforto familiari, amici e colleghi, che in quella passione di Paolo per il proprio lavoro riescono a malapena a trovare un perché a tanta disperazione.

Già, il lavoro. Il lavoro che non c’è, che è precario, che non assicura spesso neanche la sussistenza, che ha orari e pretese fuori dai principi più elementari di uno stato di diritto. E che può essere motivo di devastazione se improvvisamente perso, anche per un motivo lieve e insignificante, quando non hai ancora l’età per la pensione ed hai da tempo superato quella che ti permetteva di sperare nel futuro e, magari, di avere una famiglia di origine che ti sosteneva, invece di essere tu il sostegno della famiglia che ti sei costruito con anni di impegno.

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Il lavoro che, tra le mille emergenze che la politica quotidianamente scopre ad uso di media ed elettori, è da troppo tempo derubricato nel capitolo “e poi c’è anche questo”. Eppure sul lavoro, dice la Costituzione, è fondata la Repubblica: lavoro come dignità, come autonomia, come priorità per la politica e la società.

Una società, però, dove oggi l’imperativo è essere all’altezza, non fallire, anche se si tratta di standard comunemente inarrivabili. Una società di fronte alla quale devi dimostrare alla giuria dei leoni da tastiera di avere una vita di successo o un corpo che siano all’altezza di essere mostrati sui social. Altrimenti sei out, fuori da ogni considerazione. Soprattutto fuori dalla considerazione di chi prende decisioni sulla tua vita.

Come chi ha preso le decisioni sulla vita di Paolo. Perché dietro il suo licenziamento non ci sono solo elenchi asettici di procedure, routine, algoritmi… Ci sono nomi e cognomi di chi ha avuto la responsabilità di valutare quanto valessero trent’anni di impegno aziendale, di dedizione, di competenze acquisite, di passione, posti in rapporto a una mancanza lieve: out o in, cliccando un tasto nella “stanza dei bottoni”, senza cura per le conseguenze di quel clic sulla vita di un uomo. Nomi e cognomi di chi ha avuto affidata la responsabilità di decidere: senza appelli, contrappesi, valutazioni di una platea decisionale più ampia.

Da troppo tempo siamo stati abituati a vedere troppo personalizzata, in principal modo dalla politica per poi scendere per tutti i rami della vita sociale, la responsabilità delle decisioni: una persona sola al comando che decide, a cominciare dalle candidature, al massimo insieme a chi ha cooptato nel suo “cerchio magico”. Senza appelli, contrappesi, platee ampie.

Un “culto della personalità” (rispolveriamo il termine che si usava un tempo a proposito di altre cose, tornato di attualità per circostanze più variegate delle originarie) che, partito dall’affossamento delle ideologie, sta arrivando oggi a proporci la sua sublimazione nel premierato. Ad onta delle riflessioni comuni dei Costituenti, che due anni dopo la fine della guerra più devastante di tutti i tempi ci hanno regalato una Carta che è riuscita a sintetizzare un pensiero e dei valori comuni, unendo anche gli estremi, da sinistra a destra.

Appelli, contrappesi, platee decisionali ampie servono invece, in tutti i settori della vita sociale, per evitare tragedie come quella di Paolo, estreme conseguenze di tante situazioni simili, molte delle quali non arrivano alle cronache perché fortunatamente non sfociano in tragedie. Situazioni che nascono dalla incapacità di qualcuno di decidere con senso della misura e di confrontarsi con altri.

«È richiesta una decisione umana». Era questa la valutazione dell’avanzatissimo computer che, nel finale del primo episodio della serie di fantascienza degli anni Settanta “Spazio: 1999”, rimetteva agli umani la scelta, dopo che la Luna era stata scagliata da una potentissima esplosione nucleare nello spazio profondo, se tentare di salvarsi la vita provando a tornare in qualche modo sulla Terra o affrontare le incognite degli abissi siderali.

È giunto il tempo di prendere decisioni umane sulla vita delle persone. Secondo entrambi i significati che la frase sottintende: decisioni che non siano frutto automatico di asettiche routine burocratiche o informatiche e decisioni prese non da singoli, ma con le condivisioni necessarie perché sappiano rispettare il più elementare senso della misura e di umanità.

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Massimo Marciano
Massimo Marcianohttp://www.massimomarciano.it
Fondatore e direttore di Metropoli.online. Giornalista professionista, youtuber, opinionista in talk show televisivi, presidente e docente dell'Università Popolare dei Castelli Romani (Ente accreditato per la formazione professionale continua dei giornalisti), eletto più volte negli anni per rappresentare i colleghi in sindacato, Ordine e Istituto di previdenza dei giornalisti. Romano di nascita (nel 1963), ciociaro di origine, residente da sempre nei Castelli Romani, appassionato viaggiatore per città, borghi, colline, laghi, monti e mari d'Italia, attento osservatore del mondo (e, quando tempo e soldi lo permettono, anche turista). La passione per la scrittura è nata con i temi in classe al liceo e non riesce a distrarmi da questo mondo neanche una donna, tranne mia figlia.
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