L’unico che aveva visto giusto è stato lui: Marco Trinchieri, avvocato di Milano, fino a pochi giorni fa era solo un indistinto puntino colorato che si muoveva in fondo allo schermo del televisore, oggi è una persona-simbolo del rapporto tra esseri umani e tecnologia. È lui l’assistente numero due di Juventus-Salernitana che è stato l’unico ad aver visto come sono andate veramente le cose sul “caso” che, a distanza di giorni, fa ancora discutere, e non solo in ambito calcistico: aveva visto quella maglia bianca che teneva in gioco gli avversari e aveva tenuto giù la sua bandierina per indicare all’arbitro che non c’era alcun fuorigioco. Ma nessuno l’ha ascoltato: tutti sono accorsi subito ad ascoltare il responso della tecnologia. E ne è nato un “caso” che, ancora aperto, offre uno spunto di riflessione interessante sul rapporto umani-tecnologia.
Immaginiamo cosa abbiano rappresentato quei momenti per Trinchieri: solo, con tutti quanti che si accapigliano intorno ai teleschermi del Var. Lui, l’unico ad avere visto giusto, che minuto dopo minuto matura la convinzione di aver sbagliato, di aver visto male, perché vede tutti quanti incollati ai teleschermi a giudicare quelle immagini, che non riportano tutto quello che i suoi occhi avevano appena visto nella realtà. Ma che nella sua mente, a poco a poco, sbiadisce di fronte alla generale convinzione che “la verità” sia quella che tutti stanno valutando, non ascoltando la sua testimonianza ma disquisendo sulle immagini su uno schermo, poi rivelatesi parziali e non esaustive nella rappresentazioni di tutti gli elementi necessari per la formazione del giudizio.
È un effetto studiato a fondo dagli psicologi: anche se tu hai visto la realtà, quando tutti quelli che sono intorno a te dicono una cosa esattamente opposta alla tua, mano mano che passano i minuti e più ascolti la voce degli altri, anche se non hanno visto e giudicano sulla base di dati parziali, ti convinci di aver sbagliato. Perché una balla più è ripetuta più rischia di diventare realtà nella convinzione di tutti, fino a condizionare anche quella di chi la pensa diversamente, portandolo a ritenere che essere soli voglia dire essere in errore. Eppure non è così. Non sempre. È quello che è successo all’assistente arbitrale numero 2: un uomo rimasto solo e inascoltato.
Un esempio che va ben al di là dell’episodio specifico, va ben al di là del calcio e dello sport per investire un tema che ci riguarda tutti: l’adorazione della tecnologia e l’abbandono del giudizio personale e dell’ascolto delle testimonianze. Un tempo, prima del Var, l’arbitro avrebbe ascoltato quell’assistente con la bandierina abbassata prima di prendere una decisione definitiva. E quell’assistente, libero da ogni condizionamento, gli avrebbe raccontato ciò che è la verità, ciò che aveva visto.
Ma la tecnologia, nel calcio come nella vita di tutti giorni (come può essere la lettura quotidiana dei social, preghiera laica che ha sostituito quella dei quotidiani cartacei), sta dominando le nostre valutazioni. Come i sondaggi (ne abbiamo fatto indigestione prima, finalmente, del divieto pre-elettorale). Ipotesi basate sulle impressioni a pelle delle persone e non sulle analisi ragionate, i sondaggi stanno prendendo il posto dei dibattiti e delle interviste di approfondimento che un tempo occupavano le tribune politiche. Fino a divenire lo strumento delle stesse scelte politiche, basate sulle impressioni raccolte indipendentemente dalla correttezza e della completezza del giudizio: nel Terzo millennio, continuiamo a scegliere Barabba perché così dice la pancia della “gente”. E ce ne laviamo le mani delle responsabilità conseguenti al fare, invece, la scelta giusta.
Per chi ha letto Isaac Asimov e Arthur C. Clarke, sembrano riproporsi quelle che oggi appaiono come loro previsioni lungimiranti. Nel suo ciclo di romanzi sui robot, Asimov delineava le tre leggi della robotica: gli elementi fondamentali, inculcati informaticamente nel cervello positronico delle macchine, perché fosse assicurato che i robot non sbagliassero mai e soprattutto perché non facessero mai del male, volontariamente o involontariamente, agli esseri umani. Ma, puntualmente, succedeva qualcosa che quelle tre leggi della robotica non avrebbero potuto mai prevedere, perché la realtà non è sempre interamente comprensibile in uno schema. E in 2001: Odissea nello spazio, magistralmente portato dal romanzo di Clarke sul grande schermo a conoscenza di tutti grazie a Stanley Kubrick, rimane impresso nella mente quel breve ma raggelante e significativo scambio di battute tra il computer dell’astronave Discovery e l’astronauta David Bowman, rimasto chiuso fuori dal vascello spaziale: «Apri la porta, Hal!»; «Mi dispiace, Dave. Addio!».
Forse se introducessimo delle regole per cui, prima di lasciarci condizionare dall’esame degli strumenti tecnologici, ascoltassimo dalla viva voce di un umano ciò che ha visto, in modo che lo racconti subito, libero da ogni condizionamento, episodi ed errori clamorosi come quello di domenica scorsa potrebbero essere evitati. E questo non vale solo nel calcio, che fondamentalmente è e deve rimanere un gioco e un passatempo (lo so che è oggi un’utopia, ma è bene dirselo).
Ci sono anche ben altre scelte, sempre basate più (o solo) sulla tecnologia che sul dialogo umano, che però hanno pesanti riflessi nel governo della cosa pubblica e talvolta sulla stessa vita delle persone. Scelte sulle quali la solitudine di un numero 2 potrebbe pesare in maniera ben più grave di ciò che può accadere in una partita di calcio di inizio campionato.