Se n’è andato un grande interprete dei nostri tempi: Sergio Staino. Storico vignettista de L’Unità – ne è stato anche uno degli ultimi direttori – è morto oggi a 83 anni. Era malato da tempo e le sue condizioni si erano aggravate da qualche giorno. Padre del personaggio Bobo, molto somigliante a Umberto Eco (al quale era dichiaratamente ispirato), ha avuto una carriera straordinaria, che ha segnato l’immaginario collettivo.
Apro il cassetto dei ricordi e trovo un breve resoconto scritto (mai pubblicato) del mio unico incontro (virtuale) con Staino. Risale alla fine di una videocall di gruppo in un corso di giornalismo cinematografico tenuto dal critico Giovanni Bogani. Siamo a marzo 2022. Era stato un incontro emozionante, da riassumere brevemente come lezione di compito “a casa” a mente fredda.
L’intervista inedita
Serendipity: cercare qualcosa e trovare qualcos’altro. Una lezione di cinema via Zoom, ed improvvisamente la sorpresa: un ospite irrompe, e non è uno qualsiasi. È Sergio Staino. Capelli bianchi e quell’aria da intellettuale volutamente spettinato, che appena prende la parola si trasforma in un carismatico ed ordinatissimo trascinatore di anime. Protagonista della nostra chiacchierata è Bobo, il suo cavallo di battaglia.
Staino è giornalista, vignettista, regista, fumettista straordinario («Mi piace definirmi un fumettaro») e tremila altre cose. Probabilmente, il suo è tra i cervelli più importanti d’Europa, e ci vede benissimo nonostante abbia perso la vista quasi del tutto da quel lontano 1977 in cui ha avuto la prima rottura della retina. Il suo sguardo, da allora, parla il linguaggio del cuore. Due ore di racconti di vita senza filtri e sconti («Bruna è stata l’amore clandestino diventata compagna di vita; mia figlia è stata la mia salvezza»), di lezioni di giornalismo, di storia del fumetto («È nato per vendere giornali agli analfabeti»), di libertà “voltairiana”, di generosa condivisione di una carriera straordinaria. Anche di confessioni scomode, come il ripudio del marxismo-leninismo («Dieci anni della mia vita buttati dietro ad un ideale sbagliato e falso»).
Da dove nasce l’amore per il fumetto?
«Avevo sette anni quando mio padre mi regalò un Albo d’Oro Mondadori. I pianti che feci! Io volevo libri, perché già mi piaceva leggere. È stato invece l’inizio di un amore che dura da tutta la vita. La fortuna del mio personaggio Bobo, nato il 10 ottobre 1979, ha alle spalle il Paperino di Carl Barks, ma non ho mai progettato a tavolino quello che poi effettivamente ho creato con le mie mani. Mi sono scoperto a raccontare la vita vera degli italiani, attraverso i miei tormenti e dubbi, semplicemente lasciando parlare il cuore nel rapportarmi con la realtà. Ed è un insegnamento anche per i ragazzi: non si pensano mai le cose. Se pensi, sbagli. Bobo sono stato spontaneamente sempre “io”».
E se dovesse riassumere la sua vita come una sceneggiatura, attraverso turning points?
«Ho avuto due grandi drammi emotivi e personali. Uno è politico: nel 1969 ho pensato di poter fare una rivoluzione che pensavo necessaria, ma mi sono accorto di aver sbagliato tutto “solo” dieci anni dopo. È stata una liberazione che lo abbia ammesso a me stesso. Quegli ideali rivoluzionari hanno fallito, si sono rivelati altro da ciò che promettevano. L’altro dramma è quando mi è stata annunciata la mia progressiva cecità”».
Come ha reagito alla malattia?
«Sognavo i disegni la notte. Ero disperato. Essendo ateo, non ho mai trovato conforto nella fede. Ho però reagito, fondendo la delusione politica ed elaborandola con una grande auto-ironia. Ed il dolore l’ho trasmesso attraverso le emozioni invisibili di cui sono rivestiti i miei disegni. È finita la sicurezza spocchiosa dell’architetto, quale sono per via della mia laurea, ed è cominciato il disegno faticoso e conquistato. La “sfiga” come motore di creatività».
I saluti finali della videocall di gruppo: «Imparate a vivere con il sorriso: regala la pace». Ciao, Sergio. Ne siamo certi: il sorriso accompagnerà anche questo tuo ultimo viaggio.