Alla ricerca di un sé autentico e di un senso reale della vita: chi tra di noi non ha mai pensato di abbandonare tutto, unendosi a compagnie di “vagabondi” verso paradisi ideali, o affidandosi alla sorte? Una idea partorita ed allontanata con terrore, per timore o conformismo, o paura di essere male interpretati, additati come “folli”. Invece il protagonista di Risvegli, opera prima narrativa di Marco Testi, edita da Robin edizioni e che è stato presentato sabato 17 giugno, alle 18.30, al monastero delle Clarisse Eremite a Fara Sabina da Maria Grazia Di Mario (giornalista, nostra collaboratrice di Metropoli.Online) e Massimo Scialpi (psicoterapeuta psicoanalitico), consapevole del suo stato di malattia, trova il coraggio di fuggire senza conoscere il luogo di destinazione. La sua nebbia diventa la sua guida: un angelo fatto di umidità che nasce dalla madre terra, una Terra antica.
Il protagonista (un intellettuale) apparentemente “ha tutto”: a quanto pare! Si legge in un passaggio del testo: «Ho una casa in città – per un attimo la sua voce si incrinò, come se
quel città gli stesse rivelando una radice, un motivo di pena –, possibilità di viaggiare, un lavoro che non mi fa spaccare la schiena dato che ho vinto uno dei tanti bandi a contratto e sono riuscito a mettere un piede dentro redazioni di quotidiani e riviste, una donna che vive con me e con la quale ho un rapporto diciamo leale».
Una vita di successo, dunque; ma ciò non basta a zittire un vuoto lacerante, una sensazione chiara di pre-morte. A guidarlo verso luoghi battuti da altre vite sarà la consapevolezza dell’insensatezza dell’esistere e l’inadeguatezza del suo esistere “da intellettuale”, la cui parola (si accorge) ha da tempo perso ogni significato/funzione, divenendo mera esercitazione autoreferenziale e contaminata.
Il suo è un viaggio apparentemente casuale, ma invece ben orchestrato e significativo: l’arrivo in una basilica paleocristiana (a suggerire il ritorno alle origini, la ricerca della luce) e l’incontro con una donna (la padrona di casa) e un gruppo di straccioni non è fortuito. Lei, figura ieratica ed enigmatica, una sorta di Grande Madre (Madonna/Maria) capace di accogliere il viandante alla sua mensa e guidarlo e proteggerlo; loro, gli straccioni, sono invece una comunità di saggi, simil clerici vagantes del Medioevo.
Nelle loro parole il suo pensiero: «Non è vita quella che conduce “questa gente senza Dio”, resa folle dal potere e dal denaro, non è vita una esistenza fatta di false certezze, ipocrisie, di illegalità grandi e piccole che hanno pervaso il quotidiano di ognuno di noi, di pura violenza. La persona è solo bene materiale, di uso e consumo, alla stregua di un oggetto da buttare quando non serve più, Dio è il denaro laddove il Dio cristiano è oscurato dal fallimento della Chiesa e dalla sua corruzione, la politica, quella vera, una grande assente. Nell’oggi la parola non riesce più a raccontare, le parole hanno perso la ragione di essere dette, strumento a volte inconsapevole di ideologie in grado di strumentalizzare le menti, l’amore è perduto (l’amore ideale, essenziale)».
Un incontro traumatico, spaventoso, dentro le mura della antica Abbazia dedicata a Maria, ma soprattutto “salvifico”: sarà solo grazie ai simil clerici vagantes medioevali che il protagonista scoprirà finalmente cosa voglia dire «realmente abbandonare casa, dormire per terra, tornare all’essenza, rischiare la morte per assideramento, non chiudere un occhio per la mancanza di un cuscino, per l’assenza di un dolce, riposante letto dotato di molle sensibili come nel costoso giaciglio delle case come si deve».
«Eppure lo hanno fatto. Eppure continuano a farlo – scrive l’autore -. Non è romanticheria da ricco viziato e in cerca di emozioni estreme. C’è altro. C’è dell’altro», ripete a se stesso. C’è che questi questi straccioni, apparentemente folli e deviati, sono persone che, proprio come lui, stanche di una non esistenza lacerata da un percezione di vuoto esistenziale, hanno trovato una antica via, una strada.
Questi straccioni diventeranno per una notte i suoi insegnanti di vita, in grado di cambiarne il corso. È ormai il tempo del ritorno alle radici. Per esserci bisogna esserci, saper accogliere il viandante e divenire viandante. Ciò che caratterizza i clerici vagantes è la vera libertà di pensiero, la capacità di vivere senza finzioni, tentennamenti, il bastarsi, il lavorare nella comunità e per la comunità valorizzando la propria vera identità (è il caso del poeta che solo in questo contesto potrà divenire un vero poeta). “Loro” hanno avuto il coraggio di vivere ritrovando la pura essenzialità che, come sappiamo (spiega l’autore), è vicina alla animalità pura e dunque al divino.
La libertà di pensiero e il loro messaggio vengono affidati alle parole e ai canti, alle litanie (mistiche) dei carmina burana, brani di aspra critica verso la società contemporanea, perché le parole vanno usate per fare/creare. La vita degli ultimi in quella abbazia diventa così la vita vera e la società ideale si trasforma in una specie di circo itinerante di attori che portano nel mondo una miscela di buoni insegnamenti, a testimoniare una malattia, una rivolta e una possibile guarigione.
Un libro, scritto in maniera chiara ed essenziale, nel quale il viaggio del protagonista è forse immaginario ma insieme profondamente radicato nella sua realtà esperienziale e si riaggancia ai temi della grande letteratura del Novecento, quella dei grandi maestri (in primis Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, eccetera) che hanno colto e denunciato il disgregamento valoriale della società contemporanea. Un momento epifanico, questo di Risvegli, nel quale la funzione della parola riacquista il suo senso, la sua capacità di raccontare e di creare.