L’esito delle elezioni per il Presidente della Repubblica ha un protagonista e una grande sconfitta. E un pericolo. Il protagonista è Sergio Mattarella: un uomo di Stato che ha saputo tenere con equilibrio e dignità la barra dritta lungo la rotta della democrazia in uno dei momenti più difficili della democrazia repubblicana. La grande sconfitta di questa tornata è la Costituzione della Repubblica italiana. Il pericolo è che il sistema di equilibrio dei poteri, garantito da un Capo dello Stato super partes grazie a un sistema elettorale come l’attuale, ottenga stavolta quella rottura che ha sempre evitato.
Quella che in molti si sforzano di definire «la Costituzione più bella del mondo» (salvo poi attentarne all’integrità e alla storia in ogni occasione in cui conviene alla propria parte politica) è la grande sconfitta di questa settimana di votazioni (a vuoto e senza idee) perché ne esce per l’ennesima volta stravolta. Ma soprattutto vede poste le basi perché possa essere minato uno dei suoi cardini fondamentali, frutto del paziente lavoro di cucitura democratica di tutte le forze politiche che contribuirono, pur nella diversità delle loro ideologie, a tesserla: l’autorevolezza super partes del Presidente data da un sistema di elezione indiretta, cosa che qualcuno ora si affretterà a mettere in discussione, vista la incapacità dimostrata di esprimere candidature all’altezza della successione a Mattarella.
Il primo punto che ha portato a stravolgere lo spirito della Costituzione è, infatti (e addirittura per la seconda volta consecutiva), la cancellazione di quello che ne è sempre stato un tratto fondamentale. Ovvero la non rieleggibilità del Presidente uscente.
Molte volte in passato lo stesso Capo dello Stato uscente (chiarissimo e categorico, com’era il suo stile, fu a questo proposito Sandro Pertini) aveva espresso il principio che emerge dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente. Ovvero un principio che può essere espresso in due cardini posti dai Costituenti alla base dell’indipendenza e dell’autorevolezza super partes del Presidente.
Il primo è la nomina a senatore a vita di diritto dopo il settennato: una norma che tutela il Presidente pro tempore da pressioni politiche di parte durante il suo mandato, togliendo il ricatto di una mancata ricandidatura qualora non “obbedisse” alle pressioni di questa o quella parte politica. Il secondo elemento è che il mandato del Presidente (inteso come istituzione e non come singola persona) dura sette anni, per evitare il teorico pericolo di un incarico “a vita”.
Ci sarebbe da aggiungere, a quest’ultimo proposito, che il cosiddetto “semestre bianco” fu previsto dai Costituenti proprio per evitare che il Presidente uscente, qualora negli ultimi sei mesi del suo mandato si fosse prefigurata in Parlamento una maggioranza pregiudizialmente contraria alla sua rielezione, potesse sciogliere la Camera e/o il Senato sperando di sovvertirne l’orientamento. E vanificasse così lo spirito della prescrizione costituzionale sul limite del settennato presidenziale.
È la seconda volta che la politica deve ricorrere al Presidente uscente, come già successo con Giorgio Napolitano, per uscire fuori dalla sua incapacità di trovare una successione in tempi adeguati e con una personalità di spessore, il cui valore vada al di là della propria parte politica. Di fatto, così facendo, si è stravolto quello che era il volere originario dei Costituenti (sette anni e non più). E questa volta la incapacità della politica si è espressa in maniera ancora più grave: mai era successo prima che i partiti non riuscissero ad indicare nelle prime votazioni neanche dei candidati di bandiera, che un tempo venivano votati sapendo che molto probabilmente non sarebbero stati eletti, ma rappresentavano la capacità dei partiti stessi di puntare sull’autorevolezza (universalmente riconosciuta) di propri esponenti per “contarsi”.
I partiti, stavolta, con la loro incapacità di esprimere candidature, neanche di bandiera, segnano il loro definitivo fallimento come “corpi intermedi” tra i cittadini e le istituzioni: il ruolo che i Costituenti avevano designato per loro, come “scuole di formazione” del personale politico che sarebbe divenuto la classe dirigente in grado di governare con competenza e autorevolezza il Paese.
Il fallimento dei partiti come corpi intermedi segna la sconfitta più grande imposta dalla politica alla Costituzione della Repubblica in questa fase storica, sottolineata da questa elezione del Capo dello Stato.
Consola sapere che il Paese potrà, comunque, godere ancora della garanzia democratica data dall’equilibrio e dell’autorevolezza, oltre che dalla profonda competenza, di Sergio Mattarella: davvero un alieno in questo mondo politico, fatto di mediocrità (a tutti i livelli), se non in alcuni casi di chiara incompetenza, figlie di quello che oggi è diventato il metro di giudizio del successo, ovvero il protagonismo personale e la visibilità data dai like sui social, piuttosto che il senso del bene comune e la competenza.
Ma la sconfitta imposta alla Costituzione, andata in scena in questi giorni con l’incapacità dimostrata dalle forze politiche, può aprire le porte a qualcosa di più grave: può alimentare le pretese, finora fortunatamente minoritarie, di chi chiede una svolta presidenzialistica, approfittando della marginalità alla quale è stato ridotto il Parlamento (lo abbiamo visto in questi giorni plasticamente) dai leader e dal loro modo di interpretare la politica.
Un Presidente eletto direttamente dal popolo non a caso è stato cancellato da ogni elaborazione delle forze presenti nell’Assemblea costituente. Forti dell’esperienza autoritaria dalla quale l’Italia si era appena risollevata, i Costituenti hanno voluto, attraverso l’elezione indiretta, sottrarre il Capo dello Stato dalle banalizzazioni e dalle facili strumentalizzazioni che potrebbe determinare un’elezione diretta da parte del corpo elettorale. Un Presidente eletto in quel modo non sarebbe il Capo dello Stato super partes, il punto di equilibrio fra i tre poteri indipendenti di uno Stato democratico (esecutivo, legislativo e giudiziario), ma sarebbe l’espressione di una maggioranza politica. Con tutti i pericoli del caso.
Pericoli che l’incapacità della politica dimostrata in questo frangente ora alimenta.