Il segreto della longevità politica di Silvio Berlusconi è il “gioco di rimessa” dei media: quel modello che lui ha ben saputo rendere punto di riferimento e che tempi e modalità comunicative dell’era dei social network hanno esasperato. La notizia è diventata la dichiarazione, il tweet, il gesto, la frase, la photo opportunity e non quella “cosa” che si ricerca macinando chilometri per strada e ascoltando la gente comune.
Un ruolo subalterno dei media rispetto alla politica e all’influencer di turno, insomma, che il Cavaliere ha sfruttato ancora una volta per prendere la scena con una parola d’ordine, presidenzialismo, in grado di galvanizzare i suoi. Rendendo ancor più evidente il vuoto di attenzione ai reali temi politici in gioco esistente a sinistra, dove però sulla stessa parola d’ordine, per motivi opposti a quelli argomentati dal leader di Arcore, si sono mossi in molti con un appello passato ai più inosservato, ma ora più che mai attuale.
Venti personalità del mondo della cultura e della politica hanno sottoscritto un appello: una “coalizione d’emergenza” per la Costituzione. Una scelta dettata dal sistema elettorale che, modificato a riscritto più volte rispetto al progetto originario nato dalla Carta del 1948 e non adattato alle nuove norme introdotte con la riduzione della rappresentanza in Parlamento, rischia di consegnare ai rappresentanti di una minoranza di elettori le chiavi dell’assetto istituzionale futuro del Paese.
«È indispensabile ed urgente – si legge – dare vita ad una coalizione d’emergenza senza preclusioni per nessuno. La diversità verrà misurata nel proporzionale, dove ciascun soggetto politico si presenterà con il proprio programma specifico, e senza dubbio in questa sede torneranno centrali le grandi questioni». L’appello è stato pubblicato diversi giorni fa dal Manifesto (leggi qui: «Una coalizione d’emergenza» per la Costituzione) nell’indifferenza generale delle leadership politiche. Pronte però a dare risonanza, e quindi indiretta autorevolezza, alle dichiarazioni del Cavaliere di Arcore.
Berlusconi, non dimentichiamolo, è il regista dell’entrata nel linguaggio comune di un termine, “pressione fiscale”, usato e abusato da tutti, media e anche politici di sinistra, come avesse un’accezione neutra. In realtà, con la sua semplicità e il conseguente acritico uso esemplificativo, induce in maniera subliminale l’accettazione di un concetto caro al Cav: l’avversione verso il sistema fiscale, visto nella sua funzione di prelievo su chi possiede e non come strumento di redistribuzione di opportunità, equità, pace sociale e garante dei servizi essenziali per il cittadino medio e i più bisognosi.
E come non vedere ripetersi di nuovo, in questa campagna elettorale, lo stesso scherma concettuale, stavolta usando lo strumento linguistico? Si dice in un elegante inglese Flat tax (e lo ripetono, sempre acriticamente, media e anche politici di sinistra) perché dire in italiano “detassazione dei ricchi” farebbe un po’ schifo.
Ora è la volta, nel gioco linguistico e concettuale, della parola presidenzialismo. Berlusconi l’ha presentata anche stavolta nella maniera più facilmente intelligibile da tutti: «Sono stato l’unico capo del governo annunciato dalla coalizione e poi scelto direttamente dagli elettori con il voto» (omettendo di riconoscere che lo stesso percorso può essere attribuito anche a Romano Prodi, che per due volte l’ha battuto nelle urne).
Le parole non sono neutre. Presidenzialismo vorrebbe dire la fine del ruolo di garante e arbitro super partes del Capo dello Stato, del delicato sistema di pesi e contrappesi, di ripartizione dei poteri, di prerogative e controlli che ha assicurato all’Italia la transizione dalla devastazione della guerra al boom economico, l’uscita dagli “anni di piombo”, la crescita della classe media e la pace sociale.
D’altronde, il compito di Berlusconi e della destra appare facile, dopo che è venuto meno il collante ideologico, che ha fatto storicamente dei partiti dei “corpi intermedi” fra cittadini e istituzioni, strumenti di mediazione e armonizzazione di interessi oltre che scuole di formazione per la classe dirigente. Fino ad arrivare a Renzi e a Calenda, capaci ognuno di costruire un partito intorno al proprio nome.
E anche dopo che, con l’accordo di tutti e l’accondiscendenza o l’indifferenza di gran parte dell’opinione pubblica, la Costituzione e le leggi elettorali sono state “piegate” (spesso decisamente “deformate”) rispetto alle aspettative di questa o quella maggioranza pro-tempore, è stato abolito il voto di preferenza nelle elezioni politiche (consegnando la scelta degli eletti a pochi leader), è stata introdotta l’elezione diretta di sindaci e presidenti di Regioni (non a caso da sempre un disegno perseguito dalla destra), è stata ridotta la rappresentanza in Parlamento e Consigli comunali e abolita quella nelle Province. Una democrazia rappresentativa azzoppata, insomma.
Lo stravolgimento a più riprese dell’impianto istituzionale che era stato invece ben delineato da tutte le forze politiche dell’Assemblea Costituente – pur nella loro profonda diversità ideologica – è stato avviato da tempo con il colpevole contributo di tutti. Vorrei ricordare la marginalizzazione subita, per quei fini, da noi pochi sostenitori del valore dell’equilibrio sociale assicurato nel 1948 da un sistema costituzionale di pesi e contrappesi, da una legge elettorale proporzionale e da coalizioni formate sulla base di impegni di governo comuni e non di esigenze elettorali, destinate spesso a scomparire dopo il voto. Nonché dalla scelta di leader esclusivamente sulla base di competenze e capacità maturate “sul campo”.
Una «Coalizione d’emergenza per la Costituzione» appare oggi l’unica via per contrastare il declinare della democrazia rappresentativa verso un’oscura prospettiva oligarchica.