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HomeCultura e spettacoliLa “piccola Odissea” di Andrea Pennacchi, in giro per i teatri italiani

La “piccola Odissea” di Andrea Pennacchi, in giro per i teatri italiani

Tramite la lettura dei classici, l’attore propone un percorso di ricerca e consapevolezza. «In un testo classico senti che c’è qualcosa di te»

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Sicuramente lo avete visto in qualche serie tv (“Don Matteo”, “Petra”, “Non uccidere”), a teatro o in moltissimi film (l’onorevole Mercio in “Suburra”, il preside in “Arrivano i prof”, Baggio ne “Il divin codino”, don Walter in “Corro da te”). Ma se dico “Poiana” a “Propaganda Live”, subito lo riconoscete. Andrea Pennacchi, padovano, attore, regista, drammaturgo e scrittore, raggiunge la notorietà nel 2018 proprio in quella trasmissione tv col famoso monologo “Ciao terroni”. Ora sta girando l’Italia con “Una piccola Odissea”, uno spettacolo teatrale di 90 minuti da lui scritto e interpretato.

Lo contatto con la decisione che mi deriva dal fatto che ho adorato gli studi classici, in particolare Omero (e più tardi Shakespeare). Nelle info di Whatsapp ho da tempo la frase attribuita a Pindaro («Conosci te stesso»). Su Instagram mi sono localizzata ad Ogigia. Ma soprattutto per avere avuto come primissime letture, affascinanti e misteriose, Iliade e Odissea in versione integrale.

Io lo raggiungo ad Ascoli Piceno, nel chiostro di Sant’Agostino. Mi colpisce da subito la sua gentilezza, la pacatezza che lo caratterizza (e sorrido pensando ai modi rozzi e al vocione del suo personaggio “Poiana”!). Mentre i musicisti fanno il sound check, Andrea si presta al gioco delle domande di Drinking, il ciclo di incontri che curo.

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Riguardo al supereroe preferito ed ai superpoteri sognati, risponde: «A me è sempre piaciuto Wolverine, o Logan. Se io fossi un supereroe, mi piacerebbe molto saper volare. Non so quanto utile sarebbe, però è bello. Un altro superpotere è l’empatia».

Della macchina del tempo è entusiasta: «Farei dei gran viaggi, perché la storia mi ha sempre affascinato tantissimo. Mi piacerebbe vedere le cose come sono successe. Per cui avrei bisogno di un autobus del tempo, per fare tutte le tappe possibili. Partirei dalla preistoria, dalle grotte di Lascaux per vedere i primi graffiti».

Sul drink preferito ha diverse opzioni: «Dipende. Da buon veneto, non disdegno un bicchiere ogni tanto. Non ho “quella cosa” che bevo sempre. Magari c’è la giornata in cui è più adatta una buona birra. Oppure un calice di vino bianco, se fa caldo. Oppure d’inverno un bel rosso corposo, che ti avvolge».

Sul poter salvare il mondo, risponde: «Da solo no. Assieme si. Io cito spesso la nota favola africana, come modello. La foresta è in fiamme e tutti scappano. Il leone vede il colibrì che invece si dirige verso la foresta, e gli dice: “Cretino, devi scappare! Vieni con noi da questa parte! Dove vai?”. Il colibrì risponde: “Porto col becco un po’ d’acqua per spegnere il fuoco”. Il leone replica: “Ma col becco di un colibrì, cosa credi di fare?”. Il colibrì afferma: “Io faccio la mia parte”. In questa cosa io mi identifico tanto, nel senso che faccio quello che posso, insieme ai miei compagni di viaggio. E credo che già raccontando storie, tenendo viva la memoria di alcune cose, oppure raccontando storie di letteratura profonda, secondo me sto facendo quello che posso».

Gli chiedo quando è nata in lui la passione per il teatro, e anche per Omero, certo.

«La passione per il teatro nasce per caso. Io avevo tutt’altra strada: non sono figlio di intellettuali, non vengo dal milieu [l’ambiente inteso come fattore determinante per scelte di vita] intellettuale. Però è capitato che mi sono iscritto a un corso di teatro senza mai esserci stato. L’ho fatto per curiosità, per divertirmi. E mi ha “preso”, perché subito dopo la prima settimana, pensavo già che fosse una cosa bellissima».

«Facevo teatro di ricerca. Era una attività spesso faticosa, molto disciplinata. Io venivo da tutt’altra strada: arrivavo dalla vita militare. Era forte il contrasto tra due attività disciplinate, faticose. Però in una ti divertivi tanto e nell’altra invece no. Mi sono affezionato subito all’idea di far teatro. Poi, pian piano, con molta riluttanza, ho cominciato a pensare che avrei potuto farlo di mestiere».

«Però, soprattutto in Veneto, il teatro non viene considerato un “lavoro”. Quindi, ci ho messo un po’ ad arrivare a realizzare quest’idea. Quando poi ci sono arrivato, era tardi per fare le accademie, le scuole ufficiali, quindi ho cominciato a “fare bottega”, cioè andavo da quelli che per me erano bravi e chiedevo di insegnarmi. Sono stato fortunato, perché ho trovato degli ottimi maestri, che non smetto mai di ringraziare».

«Poi ho cominciato a portare in giro dei racconti, la cosa più facile da portare ovunque. Che erano l’Iliade e un racconto su Shakespeare. Li portavo soprattutto nelle scuole, ma non solo: dalle sale dei Comuni ai bar, dove c’era un palco, andavo. L’amore per il racconto viene proprio da una cosa che senti che è giusta per te (lo dico anche nello spettacolo). Nel momento in cui ti misuri con un testo classico, senti che c’è qualcosa di te lì dentro. Non solo. Ma c’è qualcosa di te, che grazie a quel classico si sviluppa, diventa più articolata, più ricca di possibilità nella vita. Quindi, da lì, grande amore, e ogni volta che posso, lo porto in giro».

Gli chiedo: se non avesse avuto la possibilità di fare l’attore? Giochiamo ancora: alle sliding doors, questa volta.

«Io ne ho fatte tante di sliding doors. Prima sono venuto via dall’accademia militare. Poi all’università ho iniziato a fare un dottorato. Ne ho fatte parecchie, di sliding doors. Però non saprei: se non facessi questo, non saprei».

Gli domando anche come si immagina fra un po’ di anni, se pensa di “andare in pensione” a un certo punto è di lasciare il mestiere dell’attore.

«Un attore non va mai in pensione. Un attore muore sul palco. Non riesco a immaginarmi in pensione. Mi piacerebbe molto, questo sì, avere uno spazio, una piccola scuola, per insegnare alcune cose che ho imparato. Credo che sarebbe utile non solo a chi vuol fare il teatrante. Secondo me, il teatro è una cosa utile per tutti, per conoscere meglio se stessi e anche per divertirsi. Che non è sbagliato, anzi, è una cosa ottima. Solo che il teatro è un tipo di divertimento non eccessivamente superficiale. Ti permette anche di arricchirti mentre ti diverti. Chi fa questo mestiere, deve essere al servizio della comunità, in maniera operativa, pratica. Non blandendo quello che la società pensa di sé, ma aprendo strade nuove. Fornendo strumenti soprattutto agli altri, per vedere potenzialità e strade nuove».

Chiedo infine quale amore letterario possiede, oltre ad Omero.

«Shakespeare. Sto preparando con Giorgio, il mio musicista “di fiducia”, uno spettacolo che si intitola “Shakespeare and me”. Sarà l’occasione per raccontare Shakespeare, ma anche la strada che ho fatto assieme a lui. Non perché io ritenga che sia importante parlare di me, ma perché attraverso la mia esperienza entro nei classici e mi è possibile condividerli con chi mi ascolta».

Gli chiedo di individuare una difficoltà odierna, che può rispecchiarsi nel tempo antico in cui visse Omero.

«Ricordo che c’è stato un momento in cui ci si illuse che, finita la guerra fredda, fosse finita anche la Storia. E uno dei miei maestri disse che perciò non saremmo più stati in grado di apprezzare Shakespeare. Secondo lui non ci sarebbero più state epidemie, guerre… Invece, c’è tutto! Come piccolo side benefit, non abbiamo smesso di apprezzare i classici».

Mi informo sul suo eventuale luogo fisico ideale.

«Ne ho parecchi, a seconda del tempo, come per i bicchieri di vino. É la stessa cosa. C’è il posto dove mi piace tornare, che è dove sono nato. C’è il posto in cui mi piace rilassarmi, che è la montagna, e respiro letteralmente un po’ d’aria migliore. Ci sono i posti in cui lavoro, i teatri, che sono di per sé posti meravigliosi in cui stare, anche solo sdraiati sul palco per una mezz’ora. Ne ho parecchi. Ho parecchi loci».

Infine, gli domando se ha un consiglio per una ragazza o un ragazzo che intendano fare il mestiere dell’attore.

«Do il consiglio che mi ha dato Bruce Lee attraverso i suoi film. Cioè: fai ricerca, esplora. Dappertutto. Vai dappertutto. Non lasciare che nessuno ti dica qual è la tua strada. Poi prendi solo le cose che ti servono. Quella è la cosa tua».

I teatri sono davvero luoghi incantati, in cui la nostra essenza viene richiamata dalle profondità. E talvolta riesce ad illuminare una strada che, chissà, con difficoltà omeriche, ci porterà verso la nostra casa affettiva, destinata per noi. Grazie a Giulia e a tutto Boxer Teatro. Grazie ad Andrea Pennacchi, che ha la gentilezza dei grandi eroi.

Le prossime date sono: 11 agosto (Desenzano sul Garda), 22 novembre (Torino), 23 novembre (Novara), 24 e 25 novembre (Bologna).

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Alessandra Lumachelli
Alessandra Lumachelli
Grafologa forense e consulente grafologica, docente, conferenziera e scrittrice, ha pubblicato saggi, romanzi e libri di poesie. Fra gli altri: “Il costo sociale del ghosting”, “Drinking (and Dancing) with L. A.”, “Amore non mio”, “Scrittura creatività e arte”, “Grafologia. Appunti in ordine sparso”. Da sempre attenta a tematiche etiche e sociali, sostiene Survival. Il nome registrato Drinking with L. A. le appartiene.
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