Puntualmente, ogni anno in occasione della predisposizione della Legge di bilancio torna la questione del costo dello stato sociale, in particolar mondo per quanto riguarda pensioni e ammortizzatori sociali. E puntualmente il tema viene affrontato dalla politica, e anche da gran parte dell’opinione pubblica, sotto l’aspetto delle uscite: quanto spendere, come spendere, dove risparmiare. Da tempo è quasi scomparso, salvo rare eccezioni, il tema delle entrate: non c’è finanziamento adeguato dello stato sociale, non c’è previdenza, non c’è welfare senza lavoro.
Creare lavoro, e crearne di garantito da diritti e contratti, dovrebbe essere invece il tema principale. Eppure della tutela del lavoro e della sua espansione, come forma di libertà delle persone dal bisogno, è permeata la Costituzione della Repubblica.
Sono più di vent’anni che c’è un attacco continuo ai diritti dei lavoratori da parte degli esponenti del potere politico, nessuno escluso. Che però sono ben riusciti, grazie anche gli strumenti che hanno messo in campo per la comunicazione diretta attraverso i social, bypassando quindi il ruolo di mediazione critica dei giornalisti (anch’esso un valore costituzionalmente garantito), a indirizzare l’opinione pubblica (e quindi tutti noi) ad accettare di tutto. A cominciare dalla personalizzazione della politica stessa: un tempo i grandi partiti di massa fungevano da mediatori tra le aspirazioni personali e gli interessi collettivi e al loro interno avvenivano le elaborazioni culturali che hanno dato vita, tra l’altro, anche ai progressi nel campo dei diritti dei lavoratori.
Una volta accettata la fine del ruolo dei partiti di massa, l’opinione pubblica (e quindi tutti noi) è stata esposta a un bombardamento a base di slogan che, annichilendo ogni capacità di analisi, hanno fatto si che accettassimo come fosse il bene di ognuno ciò che rappresentava invece solo il profitto di qualcuno e un danno alla collettività: dalla proliferazione del lavoro precario (ammantato dal termine edulcorato di flessibilità) alla progressiva riduzione della rappresentanza politica nelle istituzioni, che sono state private della rappresentanza proporzionale di tutti i punti di vista, anche quelli che hanno meno mezzi economici per arrivare a farsi conoscere e a far riflettere sui valori che intendono esprimere. Tutte cose che hanno penalizzato soprattutto i più deboli.
In questo disfacimento, è diventato progressivamente sempre più arduo trovare, da parte di associazioni professionali, sindacati, enti di welfare, degli strumenti normativi per difendere il mondo del lavoro. Il progressivo smantellamento delle leggi a tutela dei lavoratori e il naturale ricambio in magistratura, con il pensionamento della generazione di magistrati del lavoro formatisi con gli insegnamenti di Gino Giugni e cresciuti con la cultura dello Statuto dei lavoratori, hanno portato anche a una giurisprudenza sempre meno favorevole.
Partendo da ognuno di noi in prima persona, se non si ha coscienza di questo processo e dell’esigenza di una nuova unità dei lavoratori su basi moderne, da raggiungere operando insieme alle strutture istituzionali preposte alla tutela del lavoro (associazioni professionali, sindacati, enti per il welfare…), avremo una visione molto parziale e non saremo in grado di indirizzare le nostre energie e la nostra società nel verso giusto.
Un nuovo “Inno dei lavoratori” da scrivere guardano al nostro presente e al futuro che lasciamo in eredità alle nuove generazioni.