È il disastro navale più grave di tutti i tempi avvenuto nel Mediterraneo e uno dei più gravi in assoluto, nel quale hanno perso la vita oltre quattromila nostri connazionali. Una ferita incancellabile per tante famiglie e un episodio drammatico della storia, che ha avuto come vittime migliaia di giovani militari italiani, internati nei campi di prigionia nazisti dopo l’armistizio. Eppure, a 77 anni di distanza dalla tragedia del naufragio del piroscafo Oria, poco è rimasto ancora oggi nella memoria collettiva dell’Italia.
Se ne è tornato a parlare solo grazie alla visita che, in anni recenti, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha compiuto al monumento eretto sulla costa della Grecia, di fronte al tratto di mare dove si è consumata la tragedia. Un monumento che è stato voluto dalla popolazione greca della zona in memoria di quei giovani, quasi tutti ancora oggi dispersi in mare. Grazie alle ricerche e all’attività di un sub, anche lui greco, il sito del naufragio è stato individuato e curato.
È il 12 febbraio 1944. Al largo di Capo Sounion, in Grecia, mentre imperversa una forte tempesta sta navigando il piroscafo Oria, vecchia nave da carico norvegese: una delle imbarcazioni fatiscenti requisite dai nazisti per trasferire nei campi di prigionia migliaia di soldati italiani prigionieri perché, dopo l’armistizio con gli Alleati, si erano rifiutati di aderire alla Repubblica sociale fascista.
Sull’Oria, stipati in condizioni disumane, vi sono oltre 4mila militari internati. La nave, su cui viaggiano anche 90 tedeschi e l’equipaggio norvegese, era stata fatta salpare da Rodi dai nazisti il giorno prima alle 17.40 nonostante il parere contrario del comandante per le pessime condizioni meteorologiche. Ma anche perché l’8 febbraio precedente un altro piroscafo, il Petrella, era stato colpito al largo di Creta da due siluri di un sommergibile britannico, causando la morte di 2.646 dei circa 3.200 militari italiani internati che trasportava.
La tempesta fa naufragare l’Oria contro gli scogli nei pressi dell’isola di Patroklos. In pochi minuti la nave affonda; rimane fuori dall’acqua solo la prua, dove trovano rifugio alcuni degli imbarcati. Per gli altri, fatti entrare nella stiva, con i boccaporti chiusi, non c’è scampo. I soccorsi, per le pessime condizioni meteorologiche, possono recuperare solo il giorno dopo i pochi sopravvissuti: 37 italiani, 6 tedeschi, un greco e cinque dell’equipaggio norvegese. Muoiono 4.116 persone, di cui 4.074 sono militari internati italiani. È il più grande disastro navale del Mediterraneo e uno dei maggiori in assoluto.
I corpi di 250 deceduti vengono recuperati dai greci e sepolti in fosse comuni. Dopo la guerra vengono traslati nel Sacrario dei caduti d’Oltremare di Bari. Gli altri giacciono ancora oggi nel relitto a 30 metri di profondità. Della tragedia, caduta nel dimenticatoio, si è tornato a parlare grazie all’attività di un gruppo di parenti delle vittime e alle ricerche di un sommozzatore greco, Aristotelis Zervoudis, nominato cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che nel 2017 ha reso omaggio al monumento alle vittime del naufragio eretto tre anni prima dai greci.
Secondo stime del Ministero della Difesa, sarebbero 14.737 i militari internati italiani morti per il naufragio o l’affondamento ad opera di attacchi degli Alleati di 14 imbarcazioni requisite per trasportarli nei campi di prigionia in Germania.
Foto: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il 6 settembre 2017, rende omaggio al monumento per le vittime nel naufragio del piroscafo Oria eretto tre anni prima in Grecia (immagine dal sito piroscafooria.it)