Roma, 16 ottobre 1943. Nella Capitale fa la propria comparsa ‘il morbo di K’, una malattia davvero particolare. Così particolare che… non esiste! La inventano alcuni medici dell’ospedale Fatebenefratelli per salvare decine di ebrei dal rastrellamento al Ghetto, in cui vengono catturate 1.024 persone, tra le quali 200 bambini, poi deportate nel campo di concentramento di Auschwitz. Numerose le famiglie che riescono a sottrarsi alla caccia all’uomo, trovando riparo proprio nel vicino nosocomio capitolino. Ed ecco che proprio sull’ospedale adagiato sull’isola Tiberina viene messa in scena una storia da film, con un copione da Oscar.
La racconta alla Dire fra Giuseppe Magliozzi, testimone indiretto di questa colossale ‘bugia salvavita’, che per certi versi rimanda al gesto eroico compiuto da Oskar Schindler, ricordato per aver evitato la morte a più di 1.000 ebrei, destinati allo sterminio della Shoah. A rivestire un ruolo di primo piano in questa singolare quanto epica vicenda furono, infatti, non solo i medici del Fatebenefratelli ma anche i frati del nosocomio capitolino, che fecero scampare all’Olocausto almeno 50 persone, tra le quali anche antifascisti, esponenti del governo clandestino italiano, oltre a soldati polacchi fuggiti dall’esercito tedesco e sbandati di origine russa.
Fra Giuseppe Magliozzi afferma che «il rastrellamento avvenne di notte, per questo il primo ad accorgersi di quanto stava accadendo nel Ghetto fu il medico di guardia, Adriano Ossicini, allievo del dottor Giovanni Borromeo. Furono loro che cominciarono a nascondere queste persone, tra le quali anche molti bambini, nell’ambulatorio e in alcune stanze dell’ospedale. L’idea davvero geniale fu quella di creare un fantomatico reparto di infettivologia, in cui nessuno avrebbe avuto accesso, tranne proprio il dottor Borromeo ed una infermiera. Venne utilizzata una parte della ‘sala Assunta’ in cui era presente una grande vetrata, informando che all’interno erano ricoverate persone infette dal ‘morbo di K’ ma che, in realtà, non lo erano affatto».
Arrivato nell’istituto nel 1963 come medico, il religioso aggiunge che «in realtà in quel luogo entravano liberamente i frati, che davano aiuto a quanti erano riusciti a sfuggire ai soldati e portavano loro da mangiare» e precisa che «Borromeo ha avuto l’idea di inventare questo contagioso e sconosciuto ‘morbo di K’, ma è vero che tutta la comunità si è impegnata davvero molto».
Fra Magliozzi tiene poi a sottolineare la figura di «Maurizio Bialek, all’epoca dei fatti priore di nazionalità polacca della comunità dei religiosi Fatebenefratelli all’isola Tiberina, che dedicò la propria vita ad aiutare quanti erano ricoverati nella nostra struttura. Fu davvero una figura molto importante in questo periodo storico». L’ex direttore sanitario dell’ospedale San Pietro, spiega poi che «dietro la lettera ‘K’ si nasconde una grande ironia. Due capi tedeschi di quel tempo presenti a Roma erano infatti Herbert Kappler ed Albert Kesserling. Parlando di ‘morbo di K’, Borromeo voleva infatti sottolineare che si trattava del morbo di coloro che avevano paura di questi due gerarchi nazisti ma per i tedeschi ‘il morbo K‘ faceva tornare alla mente la malattia di Koch, ossia la tubercolosi, patologia di cui i militari avevano una grande paura».
«Il dottor Borromeo, ufficiale medico durante la Prima guerra mondiale, parlava perfettamente il tedesco – dichiara ancora alla Dire – e questo gli permise di spaventare a morte un giovane ufficiale medico delle SS. Dopo avergli fatto visitare l’intero ospedale Fatebenefratelli, una volta giunto alla ‘sala Assunta’ lo fece entrare nel famoso reparto del ‘morbo di K’. Prima di fare questo, il medico aveva avvisato i ricoverati di non proferire parola, di guardare il militare con occhi spiritati e di tossire con assidua frequenza, proprio a simulare una patologia pericolosa e contagiosa. In questo modo tutti i ‘finti pazienti’ ricoverati sfuggirono alla deportazione in Polonia o in altri campi di sterminio allora presenti in Europa».
Uno dei nascondigli più capienti del Fatebenefratelli si trovava al di sotto della botola d’accesso alle fognature, luogo molto vicino all’altare della Sala Assunta. «La botola era coperta da un tappeto – racconta ancora alla Dire fra Magliozzi – e veniva aperta solo per portare il vitto a circa dieci persone che vi si erano rifugiate. In quel periodo la famosa ‘sora Lella’, la sorella di Aldo Fabrizi, cucinava il cibo e lo rivendeva da casa, non aveva ancora il ristorante che oggi si trova proprio davanti l’ospedale. A fine giornata regalava proprio a noi e a quanti che erano nascosti tutto quello che non aveva venduto».
Fra Giuseppe Magliozzi afferma infine con orgoglio che «sfruttando l’idea di Borromeo, altri ospedali di Roma crearono reparti dedicati alla ‘malattia di K’”. Iniziato nella notte del 16 ottobre 1943, il ‘morbo di K’ scomparve l’anno dopo, il 4 giugno 1944, quando le truppe americane fecero il proprio ingresso a Roma. Gli italiani si risvegliarono liberati dalle violenze nazifasciste e si scoprirono guariti dalla fantomatica malattia».
(Agenzia DIRE – www.dire.it)