Questo è un racconto talmente agrodolce, così intenso dal punto di vista umano che si fa fatica a pensare non si tratti della trama di un film da Premio Oscar. Eppure è accaduto davvero. Ci sarebbe da dire per fortuna, poiché la storia di due saltatori in lungo alle Olimpiadi di Berlino 1936 rappresenta quel lumicino di speranza che si deve tenere acceso anche nelle situazioni più complicate, un vero e proprio monito per le generazioni a venire. Insomma, questa è una storia che ci riguarda molto da vicino.
Il contesto è dei più oscuri di cui la mente umana abbia memoria: siamo negli anni ’30 del Novecento. Il luogo? La Germania guidata da Adolf Hitler e dall’ideologia nazista. Tristemente, non c’è bisogno di ulteriori presentazioni. Il Führer capisce, così come aveva già fatto il suo omologo Benito Mussolini in Italia, che lo sport può essere una delle più importanti vetrine internazionali per rimarcare la grandezza del suo Reich. È così che vuole fortemente che i Giochi olimpici del 1936 si tengano a Berlino: un passaggio obbligato per Hitler, utile a mostrare al mondo la potenza della Germania nazista.
Gli atleti tedeschi fanno, inevitabilmente, incetta di successi; neanche la corazzata olimpionica americana può competere. Alla fine dei Giochi, il medagliere riporta 89 medaglie per la Germania e 56 per gli Stati Uniti. Nell’atletica leggera, però, i risultati stentano più del previsto: i teutonici conquistano le medaglie d’oro “solo” nei lanci del martello, del giavellotto e nel getto del peso. Intanto, nella velocità pura comincia a farsi largo un 25enne di Oakville, nell’Alabama, che vincerà l’oro nei 100, 200 metri e nella staffetta 4×100, annichilendo la concorrenza: il suo nome è James Cleveland Owens, o più semplicemente Jesse Owens.
L’americano appare come un pesce fuor d’acqua in una Berlino cosparsa di suprematismo ariano e di idee che avrebbero portato lentamente all’Olocausto. Il motivo? Il colore della sua pelle. In quel periodo, essere afroamericano è complicato persino negli Stati Uniti, figurarsi nella Germania di Hitler. Ma lui corre come il vento, contro tutto e tutti.
Nel salto in lungo c’è un tedesco pronto a contendergli la medaglia d’oro. Si chiama Carl Ludwig Hermann Long, detto Luz, ed ha gli stessi 25 anni di Owens. L’età e lo sport per cui si allenano da una vita sono le uniche due cose che li accomunano. Così lontani, così vicini, per parafrasare il titolo del film “Così lontano così vicino” del regista Wim Wenders, connazionale di Long. infatti, sin dai turni di qualificazione i due stringono una sincera amicizia che li porta anche ad aiutarsi a vicenda.
Come racconterà Owens anni dopo, Long vede in difficoltà il suo collega in quanto non riesce a prendere la giusta rincorsa per affrontare i salti. Sulla pista d’atletica si stanno disputando le batterie dei 200 metri e lo spazio è risicato. Così, il tedesco suggerisce allo statunitense di partire 30 centimetri più indietro del normale: grazie a questo consiglio, Owens riesce a qualificarsi per la finale.
Martedì 4 agosto è il giorno della tanto attesa finale. Il favorito è Long, apparso più costante per tutte le qualificazioni rispetto ad un Owens più in difficoltà. Sotto l’occhio mefistofelico di Hitler che scruta dalle tribune, la gara si infiamma. Un nullo dell’americano e un quasi record olimpico del padrone di casa fanno intendere che Long può spuntarla, per la felicità del Führer e del pubblico.
Non hanno, però, ancora fatto i conti con la tenacia e l’immenso talento di Jesse Owens: in sequenza, piazza un 7,94m e un 8,06m, misure che ancora adesso tanti invidiano. È il colpo di grazia per Luz Long, che arriva fino a 7,87m ma si deve arrendere: medaglia d’argento per la Germania ed un’altra sconfitta per la “razza ariana”. Invece, non è una sconfitta per il secondo classificato Long, contento di essere stato battuto dal suo amico.
Finite le Olimpiadi, i due continuano a rimanere in contatto creando un vero e proprio rapporto fraterno nonostante le distanze fisiche ma, soprattutto, biologiche e culturali. Si arriva però nel 1939 e scoppia la Seconda Guerra Mondiale. Negli Stati Uniti, Owens è al sicuro, mentre Long è chiamato alle armi. Proprio per questo, nell’ultima lettera scambiata tra i due, Long chiede a Owens una promessa che riguarda suo figlio Karl, che al momento della partenza del padre per la guerra è troppo piccolo per capire ciò sta succedendo. Long chiede all’amico che, qualora lui non fosse tornato dal fronte, quando un giorno gli sarebbe stato possibile Jesse avrebbe dovuto recarsi da suo figlio Karl per parlargli del padre.
In particolare, il tedesco vuole che l’amico racconti a suo figlio del legame che li ha uniti prima che la guerra li separasse, per far capire che i rapporti tra le persone possono essere diversi da quelli imposti dai conflitti. Struggente, come se Luz sentisse che il suo tempo sulla Terra stesse per volgere al termine.
E così sarà: durante lo sbarco alleato in Sicilia, nel luglio del 1943, Luz viene fucilato da militari americani in quello che passerà alla storia come il “massacro di Biscari”: due diversi crimini di guerra in cui, per ordine di altrettanti sottufficiali statunitensi, vengono uccisi 76 prigionieri di guerra tedeschi e italiani. Jesse Owens, messo al corrente della scomparsa del suo caro amico, non solo mantiene la promessa, viaggiando fino in Germania dopo la fine della guerra, ma partecipa anche al matrimonio di Karl, il figlio del suo amico Luz. «Anche fondendo tutte le medaglie e le coppe vinte in carriera, nulla può essere paragonato a quel senso di amicizia a 24 carati che in quel momento provai per Long», dirà Owens qualche anno più tardi.
Una luce che ha seguito l’afroamericano per tutta la sua vita, oltre ad ispirare le generazioni future contro ogni forma di razzismo e segregazione. Una storia che necessita di essere tramandata come testimonianza di come un semplice legame tra due esseri umani possa insegnare ad essere umani davvero.