Nei mesi scorsi eventi meteorologici estremi, che negli ultimi anni sembrano essere sempre più frequenti, hanno interessato l’Italia: forti piogge e grandinate, nubifragi e esondazioni. Passata l’ondata, torna il tempo di spalare il fango, di calcolare i danni, di fare i bilanci, di piangere le vittime e soprattutto di ritornare a riflettere sul rischio idrogeologico.
Stando ai dati di una recente indagine condotta dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), il 91% dei comuni italiani sono a rischio per fenomeni riconducibili al dissesto idrogeologico: 1,28 milioni di abitanti sono a rischio frane e oltre 6 milioni a rischio alluvioni. Emilia Romagna, Toscana, Campania, Lombardia, Veneto, Liguria e Sardegna sono le regioni in cui la popolazione è maggiormente a rischio.
Con il termine dissesto idrogeologico si intendono tutti quei processi che hanno un’azione fortemente distruttiva sul suolo. Alcuni si manifestano in modo più graduale e prolungato nel tempo, come l’erosione superficiale, legata principalmente all’azione delle acque meteoriche e alla natura dei suoli. Altri possono essere improvvisi e catastrofici, come le frane e gli smottamenti che si verificano nei terreni montani e collinari e le alluvioni che inondano quelli pianeggianti. Come accade nel caso dei terremoti, gli effetti del dissesto idrogeologico sono meno evidenti in aree naturali o poco antropizzate, mentre possono assumere connotati drammatici quando colpiscono abitazioni, infrastrutture e coltivazioni.
La conformazione geologica e geomorfologica di un territorio sono quindi fattori fondamentali per il rischio di dissesto, ma un altro fattore importante è l’azione dell’uomo, il quale può peggiorare all’estremo le già precarie condizioni di un’area.
L’Italia è un territorio fragile e particolarmente esposto a questo rischio: è caratterizzato da versanti ripidi, forti dislivelli e corsi d’acqua con un regime per lo più torrentizio e particolarmente soggetto a fenomeni di magra e di piena. Alla tendenza naturale del territorio si aggiunge l’azione dell’uomo.
Abbandono delle aree montane e conseguente mancanza di manutenzione dei versanti, deforestazione, abusivismo edilizio, interventi invasivi e non calcolati sui corsi d’acqua e mancata manutenzione degli stessi, cementificazione diffusa e impermeabilizzazione del territorio che incrementa l’entità del deflusso superficiale a discapito dei processi di infiltrazione. L’intensa urbanizzazione non ha tenuto conto delle aree fragili dal punto di vista idrogeologico e sismico incrementando delle condizioni di rischio. A tutto questo, sommiamo i cambiamenti climatici che stanno provocando un aumento dell’intensità e frequenza delle precipitazioni, ampliando le aree soggette ad alluvioni e frane e la gravità dei fenomeni.
La visione ingegneristica, che vorrebbe piegare il territorio al volere umano, ha dimostrato ampiamente di essere errata: non si può pensare di risolvere una frana con un muro in calcestruzzo e un’esondazione con un argine. I fenomeni che accadono sulla superfice terrestre sono molto più complessi e si rischia, come è successo in molti casi, di creare le condizioni per ulteriori futuri danni.
Cosa si può fare per contrastare il rischio di dissesto idrogeologico
Si può fare moltissimo e le conoscenze, in merito, non mancano. Tuttavia la prevenzione richiede una mentalità e una cultura della sostenibilità e della tutela, una volontà di salvaguardare il territorio superando le opportunità economiche che lo stesso presenta. Da subito andrebbero bloccate tutte le attività che aumentano il rischio e bisognerebbe investire sulla gestione e tutela del suolo. È importante pianificare gli interventi di controllo e cura del territorio, inclusa una regolare manutenzione. Uso corretto del suolo e restituzione di parte di esso alla natura possono fare la differenza, andando oltre ciò che si fa oggi, ovvero interventi concentrati principalmente a risolvere situazioni di emergenza o già molto critiche.
Uno dei problemi maggiori è sicuramente l’aver costruito edifici in zone a rischio e non adeguate per cui è fondamentale controllare lo sviluppo territoriale e urbano secondo logiche e informazioni precise ma è anche opportuno costruire nel modo giusto. Nei contesti urbani il problema della gestione delle acque meteoriche è critico: la grande quantità di superficie costruita e cementificata fa si che il suolo non riesca a drenare correttamente le acque piovane che arrivano a provocare allagamenti e disagi.
Il modo migliore per prevenire le frane è fermare il disboscamento nelle aree a rischio e non concedere l’edificabilità sui pendii instabili. Dove il danno è già stato fatto, bisogna intervenire per consolidare e stabilizzare i versanti con rimboschimenti e sostegni.
Sul fronte delle alluvioni la giusta soluzione è riportare in condizioni naturali i corsi d’acqua ristretti, imbrigliati, ingabbiati entro sponde di cemento che hanno trasformato fiumi e torrenti in canali.
Il dissesto idrogeologico è figlio dell’incuria e della cattiva gestione del territorio. I costi ambientali, sociali ed economici sono elevatissimi, ma gli interventi per la messa in sicurezza sono spesso bloccati dall’inezia della politica e dalle lungaggini burocratiche. Negli ultimi anni, in realtà, si sta superando quell’immobilismo sul fronte della gestione del rischio che per decenni ha caratterizzato il nostro paese. Gli strumenti ci sono, le possibilità tecniche ed economiche per attuarli anche, quindi si spera che si possa mettere finalmente in atto un piano concreto.
La responsabilità dell’uomo è innegabile e i cambiamenti climatici sono, molte volte, degli alibi poco validi: non è la natura a essere “cattiva”, ma sono quelle infrastrutture che non dovevano essere lì.