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Il Papa dei gesti e delle riforme

Primo Pontefice della storia ad avere il coraggio di prendere il nome del “poverello di Assisi”. «Come vorrei una Chiesa povera per i poveri»

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Agenzia SIR
Per gentile concessione

27 marzo 2020: il Papa che eleva la sua supplica da solo, in una piazza San Pietro vuota e sferzata dalla pioggia, sotto gli occhi vigili ma dolenti del Crocifisso di San Marcello al Corso. Due anni dopo, il 25 marzo 2022, la scena si ripete, ma dall’interno della basilica: Francesco affida di nuovo le sorti dell’umanità a Maria, in un mondo segnato questa volta non da una pandemia fino ad allora inedita come quella da Covid-19, ma sfigurato da «un massacro insensato», come lo aveva definito nell’Angelus della domenica precedente, in uno dei suoi ennesimi appelli per far cessare il conflitto tra Russia e Ucraina, iniziato nel febbraio 2022, e negli altrettanti inviti per la pace tra Hamas e Israele, cominciato il  7 ottobre 2023. Due delle tessere più tragiche – perché «la guerra è sempre una sconfitta» – di quel mosaico che Bergoglio ha ribattezzato «la terza guerra mondiale a pezzi», stigmatizzandone i focolai in ogni parte del mondo.

Sono le immagini-simbolo di un pontificato segnato soprattutto dai gesti e dalle molte “prime volte” di un papa che, subito dopo l’elezione al soglio di Pietro, ha annunciato di voler compiere un cammino “vescovo-popolo”, chiedendo la benedizione del «santo popolo di Dio», dal cui fiuto la Chiesa ha molto da imparare, secondo il primo papa nella storia ad aver osato di prendere il nome di Francesco, confessando per primi ai giornalisti, tre giorni dopo l’elezione, il suo sogno sul solco del poverello di Assisi: «Come vorrei una Chiesa povera per i poveri».

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Quando Jorge Mario Bergoglio, la sera del 13 marzo 2013, si è affacciato alla Loggia delle Benedizioni in qualità di successore del primo papa dell’epoca moderna ad aver rinunciato al soglio di Pietro, tranne che per (pochi) addetti ai lavori non era nella lista dei candidati.

Nei suoi dodici anni di pontificato, il Papa venuto dalla «fine del mondo», come lui stesso si è definito, ci ha abituato alle sorprese di quello che, oltre che delle parole, è stato un magistero dei gesti. Caratterizzato dalla «rivoluzione della tenerezza» e da una parola – accoglienza – declinata a tutto tondo: verso i poveri e gli ultimi, verso i migranti, verso le famiglie e i giovani, verso i non credenti e i “fratelli” cristiani e delle altre religioni.

Fin da subito, Papa Francesco ha conquistato il favore della gente, che di lui ha subito detto “è uno di noi”: la sua empatia ha preso i colori della tenerezza, come nei lunghi giri di piazza prima delle udienze del mercoledì, o durante i viaggi apostolici, in cui perfino quando i problemi al ginocchio lo hanno costretto a servirsi della sedia a rotelle, o quando problemi di salute gli hanno impedito di compiere il tanto agognato viaggio a Dubai per la Cop28, il contatto ravvicinato con il suo popolo è stato sempre in grado di trasformarsi per lui in un vero e proprio elisir di vitalità, ricaricando appieno le sue energie per dare nuovo slancio a quella «Chiesa in uscita» verso le periferie geografiche ed esistenziali auspicata come modello ecclesiale del presente e del futuro, sulla scia del Concilio e delle intuizioni profetiche di Paolo VI, il papa della sua formazione.

“Ecclesia semper reformanda”, l’adagio conciliare, e riforma è certamente una delle parole-chiavi del pontificato di Francesco, che con la Praedicate evangelium, entrata in vigore il 5 giugno 2022, ha sostituito la “Pastor Bonus” di Giovanni Paolo II.

La «mondanità spirituale» e il clericalismo, i mali peggiori, all’origine anche di crimini vergognosi come gli abusi perpetrati da membri del clero, contro i quali Francesco ha ingaggiato una lotta senza quartiere, completando l’opera cominciata dal suo predecessore all’insegna della trasparenza e della “tolleranza zero” fino ad arrivare al Summit mondiale del 2019 e a Vos estis lux mundi, il Motu Proprio emanato nello stesso anno e aggiornato quattro anni dopo con norme ancora più stringenti. Stessa linea seguita per i processi in Vaticano, in particolare per i reati finanziari che avevano a che fare con alcuni investimenti finanziari della segreteria di Stato, come quello del Palazzo di Sloane Avenue a Londra.

Lo stile scelto da Francesco nell’Evangelii gaudium, il suo documento magisteriale programmatico, è quello di avviare processi, più che occupare spazi. Compiere un tratto di strada insieme, fin dove si può, partendo dai legami di amicizia personali e dalla capacità di empatia e prossimità anche con chi non incrocia abitualmente i sentieri ecclesiali, come i non credenti.

Perché «la Chiesa è Sinodo», come ha mostrato lui stesso – con i due Sinodi sulla famiglia, quello sui giovani e quello sull’Amazzonia, fino al Sinodo sulla sinodalità, il primo convocato “dal basso” coinvolgendo anche i laici e le donne – chiedendo a tutta la comunità ecclesiale di assumere questo stile.

Sullo sfondo, apparentemente dietro le quinte ma in realtà motore della testimonianza personale del cristiano oltre che della storia – quella macro e quella micro – la misericordia del Buon Samaritano, che si china per versare olio su chi è ferito in vario modo dalla vita. Come i senzatetto, a cui il Papa ha dedicato un inedito appuntamento giubilare, istituendo la Giornata mondiale dei poveri, o i carcerati, che in una delle istantanee più memorabili del Giubileo del 2016 hanno riempito la basilica di San Pietro con una compostezza umile e fiera nello stesso tempo, più eloquente di tante parole.

Perché la vita, la sua serietà e il suo peso specifico, si possono apprezzare solo con gli “occhiali” delle periferie, troppo spesso martoriate e dimenticate dalla «globalizzazione dell’indifferenza».

(M. Michela Nicolais)

La prima pagina di “Avvenire” oggi in edicola, dedicato quasi interamente a un’analisi del pontificato di Papa Francesco
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