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Ieri, oggi e domani

Nell'affrontare la crisi della guerra tra Russia e Ucraina, c'è qualcuno che pensa a una soluzione per la convivenza pacifica nel dopoguerra?

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Ieri discutendo della guerra russo-ucraina con diversi amici, sia su Facebook sia di persona, ho fatto particolare attenzione a non parlare del passato, cioè di come si sia arrivati alla situazione attuale; di come si sia allargata la Nato dalla fine della guerra fredda a oggi; di come siano state amministrate “democrazia” e “libertà d’opinione” in Ucraina negli ultimi anni, anche da parte dello stesso Zelensky; di tutte le recenti guerre americane fatte per “esportare” o “difendere” la democrazia nel mondo: insomma di tutti quegli argomenti che solo a nominarli ti fanno passare per putiniano, antiamericano e pacifista stupido o ipocrita a seconda dell’interlocutore con cui stai discutendo.

Nulla di tutto questo! Mi sono invece limitato a guardare il futuro sottolineando l’esigenza che qualcuno, nell’affrontare questa crisi, si preoccupi anche di pensare a una soluzione che non comprometta ogni possibilità di convivenza pacifica in un dopoguerra auspicabilmente vicino.

Il concetto che ho cercato di esprimere è che visto che attualmente le più grosse potenze al mondo sono solo quattro: Russia, Cina, Stati Uniti ed Europa, accanto alle quali si stanno affacciando India, Brasile e Sudafrica, e che a causa della globalizzazione le loro economie e le loro possibilità di crescita e sviluppo, anche sociale, risultano sempre più tutte interdipendenti tra loro, tanto vale cercare di andare d’accordo in una convivenza pacifica che non ci costringa tutti a vivere in un mondo fatto di blocchi contrapposti, in costante tensione politica e militare, spendendo più in armi che in ricerca, sanità, istruzione, tutela dell’ambiente, eccetera, con il risultato di vivere in un continuo clima di guerra, vedendo arricchire i fabbricanti di armi e aumentare le disuguaglianze economiche e sociali.

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Ho dovuto però constatare che, così come quelli del passato, anche i temi del futuro sono indigesti ai più e l’unico tempo di cui è consentito ragionare è il presente, un presente fatto unicamente di guerra: “guerra senza se e senza ma”, niente diplomazia, niente trattative, niente prospettive di pace, niente prospettive di ricostruzione (o almeno di ricostruzione politica e sociale perché di quella materiale si può invece parlare eccome, anzi più si distrugge e più c’è da ricostruire!). Insomma non si può parlare di altro che di guerra tanto che ancora solo un mese fa tra le altisonanti dichiarazioni di Biden, Johnson e Zelensky sembrava quasi di sentir riecheggiare, non senza qualche apprensione, il vecchio motto «La parola d’ordine è una sola: vincere e vinceremo».

Anche ora di fronte al “cronicizzarsi” della guerra – guerra che Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, prevede durare anni e per sostenere la quale ha buttato giù un programmino niente male fatto di ingenti stanziamenti, mobilitazioni militari massicce e massicce forniture di armi agli ucraini sempre più provati da quattro mesi di disperata resistenza – non si trova quasi nessuno disposto a pensare che il mondo è uno, le grandi potenze quattro e o trovano un modo pacifico di convivere o saranno guai seri per tutti.
Quel che da più amici diversi mi sono sentito ripetere ieri è che: di Putin non ci si può fidare; l’unico modo per uscirne sono le bombe; guai a cercare mediazioni con la Cina; l’unico alleato affidabile sono gli Usa e via dicendo.

Neanche un’analisi oggettiva dei fatti sembra aiutare ad allargare l’orizzonte del ragionamento: dopo quattro mesi di combattimenti ancora non si intravvede alcuna via d’uscita e anzi si dice che la guerra potrebbe durare anni; la situazione dell’Ucraina appare militarmente sempre più debole e dal punto di vista economico e sociale sempre più critica all’interno; la posizione internazionale di Putin sembra rafforzata; la presunta dissidenza interna in Russia tarda a farsi sentire mentre sembra crescere quella in Ucraina; le sanzioni europee, specie quelle sulle fonti di energia, sembrano paradossalmente giovare molto alle finanze della Russia che sembrerebbe vendere meno gas e petrolio ma incassare di più mentre stanno mettendo in ginocchio l’economia europea; la mancata distinzione tra il popolo russo e il suo vertice politico, con il conseguente ostracismo internazionale nei confronti di atleti, artisti, scienziati, economisti e intellettuali russi, giova più a Putin che alla causa ucraina; la miopia degli Usa nel voler gestire secondo il loro schema tradizionale un conflitto che tradizionale non è (lontana guerra di logoramento con remunerativo uso di ingenti quantitativi di armamenti contro un nemico che questa volta non è un paese terzo bensì la Russia in prima persona) è tale che alla fine a lanciare un monito richiamando l’esigenza di «guardare oltre le ostilità» e «reintegrare Mosca nel sistema europeo» è dovuto intervenire, sulla soglia dei cento anni d’età, addirittura quel vecchio falco interventista che è Henry Kissinger!

Insomma io sono nessuno e mi auguro di sbagliarmi di grosso (ieri mi sono sentito dire anche che sono «troppo pessimista») ma a tutti coloro i quali oggi prendono fuoco se solo si fa loro notare che mentre nella seconda metà degli anni ’80 Gorbaciov girava in tournée le capitali di mezza Europa promuovendo l’idea di una «casa comune europea» la Nato iniziava la sua espansione fino ai confini russi, raccomando di tenere bene a mente tutta l’evoluzione dell’attuale crisi russo-ucraina per evitare un domani, nel malaugurato caso di una escalation del conflitto, di dover ripetere daccapo tutti gli stessi discorsi a loro tanto indigesti.

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Achille Nobiloni
Achille Nobiloni
Nato a Frascati (Roma) nel 1952. Giornalista pubblicista. Dieci anni corrispondente del Messaggero dalla provincia; quindici anni redattore dell'agenzia Staffetta Quotidiana Petrolifera, venti anni dirigente d'azienda in Agip Petroli e in Eni nella direzione Relazioni Esterne e Rapporti Istituzionali. Attualmente in pensione, appassionato di storia locale e arte.
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