Esistono varie spiegazioni perché l’energia sia diventata un problema d’importanza crescente e drammatico nell’intero quadro dell’economia e della politica globale. Senza alcun precedente, si è creato uno squilibrio fra domanda e offerta globale che ha creato una situazione di effettiva scarsità con la conseguenza di aumenti di prezzo pesanti e generalizzati. Le attuali tensioni tra Russia e Ucraina hanno evidenziato una vulnerabilità della sicurezza energetica di vari stati membri dell’Unione europea.
Dalla Russia arrivano il 26% delle importazioni di petrolio e il 50% delle importazioni di gas verso l’Unione europea, dati che fanno pensare a una condizione di totale dipendenza. Peraltro c’è da evidenziare anche il fatto che le esportazioni energetiche sono di fondamentale importanza per il modello economico della Russia poiché rappresentano il 60% delle sue esportazioni totali, il 40% delle sue entrate in bilancio e il 25% del suo prodotto interno lordo: uno dipende dall’altro, interdipendenza.
Il processo storico, politico ed economico che oggi imprigiona l’Europa ha origine negli anni settanta. Allora vi era la cortina di ferro, una linea di confine territoriale ed ideologico che divideva i paesi dell’Europa orientale da quelli dell’Europa occidentale, che rendeva allettante per l’allora Unione sovietica legare a sé i Paesi appartenenti al Patto di Varsavia, attraverso esportazioni di petrolio e di gas. In quegli anni si scoprirono immensi giacimenti nella Siberia sovietica.
Ma la goccia che fece traboccare il vaso e “gassifizzare” l’Europa fu la crisi petrolifera del 1973, momento in cui i Paesi europei realizzarono di essere dipendenti dall’Opec, l’organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio. A farla breve: si fuggì dal petrolio per diventare prigionieri del gas, sempre prodotto estero, combustibile fossile e non rinnovabile!
Già nel 2009 questo problema venne sottolineato a seguito di una controversia fra Russia e Ucraina sulle tariffe di transito che portò a un blocco degli approvvigionamenti verso l’Unione europea. Da allora l’Unione europea ha perseguito una politica di diversificazione dei suoi approvvigionamenti, si sono messi in esercizio nuovi gasdotti da altri paesi e sono stati costruiti nuovi terminali di rigassificazione per importare gas naturale liquefatto da nuovi produttori come Stati Uniti e Australia.
Il problema di base della dipendenza dalla Russia è geografico e di strutture: i gasdotti sono più economici e veloci e avere un produttore vicino ai grandi consumatori è indispensabile. A questo si aggiungano le problematiche di altri fornitori di varia natura che hanno addirittura aumentato la dipendenza.
Con una quota di mercato del 50%, la Russia tramite la Gazprom, l’azienda che vende ed esporta il gas naturale, ha in pratica un regime di monopolio per quel che riguarda i prezzi e le quantità. Tutto questo cosa comporta? Nulla di buono, logicamente, soprattutto per il consumatore finale: rincari, rallentamento della crescita economica, aumento dell’inflazione e del debito pubblico.
Un contributo decisivo per cercare di ridurre la dipendenza energetica è l’aggiunta sempre maggiore di fonti di energia rinnovabile al mix energetico. La famosa transizione energetica, il processo che punta al passaggio dall’utilizzo di fonti di produzioni non rinnovabili a energie rinnovabili, considerate più efficienti e meno inquinanti, mettendo al primo posto la decarbonizzazione.
I vantaggi basati sul passaggio all’energia green sono numerosi: una minore vulnerabilità dell’economia causata dalle fluttuazioni dei prezzi dell’energia, la limitazione delle emissioni nell’industria, nei trasporti, nell’agricoltura e in tanti altri settori fino a una minore dipendenza dalle importazioni di energia.
Il processo di transizione energetica non è nuovo nella storia. In passato abbiamo assistito ad altri grandi passaggi epocali come quello dal legno al carbone del XIX secolo o dal carbone al petrolio nel XX secolo. Ciò che contraddistingue questa transizione rispetto alla precedente è l’urgenza di proteggere il Pianeta dalla più grande minaccia che abbia dovuto affrontare fino ad oggi, e di farlo nella maniera più veloce possibile.
La transizione energetica non può limitarsi solo alla chiusura delle centrali a carbone e allo sviluppo di energie pulite: è un cambiamento di modello dell’intero sistema. Lo sviluppo delle energie rinnovabili rappresenta il cuore della transizione energetica. Il fotovoltaico e l’eolico si sono aggiunti a tecnologie mature come l’idroelettrico e il geotermico e si sono imposti come i grandi protagonisti della transizione in atto.
Alla transizione potrebbe presto contribuire anche lo sviluppo di settori nuovi, come l’energia marina e l’idrogeno green, mentre saranno decisive le tecnologie di storage, cioè i sistemi di accumulo dell’energia in grado di supplire all’intermittenza di fonti come il sole e il vento.
Ma è realistico, oggi, poter dire addio al carbone?
Non si può improvvisamente e semplicemente abbandonare le fonti di energia fossili: non siamo preparati. Il processo deve inevitabilmente sottostare a un’eliminazione graduale che va gestita in modo da garantire la stabilità, la resilienza e l’efficienza delle reti.
Il gas naturale pare essere la migliore soluzione attuale per facilitare il definitivo passaggio alle fonti rinnovabili. I vantaggi sono numerosi: un miglioramento dell’efficienza, dal 40% dei tradizionali impianti a carbone al 50% di quelli a metano. In termini di emissioni, a parità di energia elettrica generata, si può ridurre la quantità di anidride carbonica prodotta fino alla metà.
Il gas sembra rispondere nel modo migliore possibile alle esigenze pratiche, almeno fino a quando la combinazione di fonti rinnovabili per la generazione e di batterie per l’accumulo sarà abbastanza sviluppata da garantire performance ottimali. Leggerezza e mancanza di buon senso hanno forse dato per scontato un facile e indolore abbandono dei combustibili solidi, compreso il gas, salvo poi doversi scontrare con una reale mancanza di offerta alternativa e la logica impennata dei prezzi, la crescita dell’inflazione e la frenata della crescita economica.
Si fa presto a pensare totalmente alle energie rinnovabili che però sono instabili e, se Eolo è bizzarro e se il cielo è nuvoloso, non restano molte possibilità al momento davvero valide e il gas sembra il meno peggio. Per quanto ancora non lo sappiamo: dipende dai tempi, dai modi, dalla portata della transizione energetica.
Oggi sappiamo che l’attività economica post pandemia è ripresa con grande impeto, che mancano le scorte, che l’Asia è affamata di energia e che tutto il nord Europa può subire la mancanza di vento.
Facciamo un esempio pratico prendendo in considerazione la situazione della Germania, che si è impegnata a chiudere quasi immediatamente gli impianti nucleari ed entro il 2030 quelli a carbone, indicando forti pressioni sull’energia nucleare che, però, ancora oggi assicura la soddisfazione del fabbisogno elettrico europeo per un buon 25%. Il problema è che né il nucleare né un rapido sviluppo delle rinnovabili risolverebbero la situazione: l’elettricità è solo il 20/25% dei consumi energetici totali: gas e petrolio servono a soddisfare la restante parte. Ragion per cui la Germania è obbligata a usare il carbone e la lignite, di cui è il maggior produttore mondiale, soprattutto quando sole e vento vengono meno: le emissioni di gas serra aumentano e la transizione energetica rallenta.
L’abbandono degli idrocarburi è difficile, costoso e pieno di incognite, ma è una strada inevitabile che provocherà terremoti nella stabilità politica mondiale: la transizione energetica è materia che va trattata con cura e attenzione e gestita con intelligenza e concretezza.
Le rinnovabili costano, ma i danni del cambiamento climatico costano molto di più, da tanti punti di vista. Oggi le rinnovabili sono sempre più competitive: i costi degli impianti scendono, mentre le materie prime, acqua, vento e sole hanno un costo fisso pari a zero. La tecnologia per accumulare l’energia, grandi sistemi di stoccaggio elettrochimico, è in continuo progresso.
Già quarant’anni fa si discuteva di come investire nella ricerca per eliminare i particolati e tutelare la salute, ma si è dovuto fare i conti con la crescita economica e con la concorrenza globale che hanno bisogno di enormi quantità di energia: non esiste un’unica soluzione, ma sono necessarie soluzioni diverse in base agli utilizzi e alle categorie coinvolte. Puntare purtroppo soltanto su un’unica tecnologia, come l’elettrico, è in questo momento una scelta azzardata dal punto di vista della gestione del rischio, ma i progressi tecnologici richiedono tempo e soldi.
Prendiamo il settore automobilistico. La Cina, il mercato con il maggior numero di veicoli elettrici, ha già acquisito il controllo delle catene di approvvigionamento dei materiali strategici, produce la sua elettricità da centrali a carbone con un costo bassissimo e un grande impatto ambientale: ma nessuno ci spiega come saranno gestite varie problematiche legate a questi motori. Dell’auto elettrica trascuriamo le emissioni legate alla generazione dell’elettricità che serve ad alimentarla e che, perfino nelle stime più ottimistiche, continuerà per decenni a essere prodotta in parte con fonti fossili perfino nel virtuoso Occidente. E la produzione di batterie è ad alta intensità carbonica, così come lo è l’estrazione mineraria dei suoi elementi.
Come sarà affrontato il problema del riciclo e dello smaltimento di questa ingente massa di pile? Il consumo di energia influisce quotidianamente sul nostro ambiente: scegliere alternative vuol dire prendere un impegno che non possiamo più rimandare con il Pianeta e con il nostro stesso futuro.
Un Paese senza fonti di approvvigionamento energetico è un paese soggetto ai limiti fissati da qualcun altro, al suo dominio: prima o poi, meglio prima, bisognerà prendere coscienza di questa fragilità.
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