Dopo lo storico, prezioso e memorabile “viaggio penitenziale” in Canada di Papa Francesco, l’auspicio è che sia un’esperienza che ispirerà, si spera, molti a rispettare e onorare il nobile popolo delle First Nations, le ”prime nazioni” (ad abitare tale luogo) non solo del Canada, ma di tutto il mondo affinché, per esempio, non si ripetano mai più gli orrori avvenuti nelle residential schools cattoliche, ree purtroppo di molte gravi violenze, crudeltà e soprusi verso i giovanissimi – ne morirono migliaia – tra il 1870 e il 1940 circa. Puntiamo ora però l’obiettivo su un’altra tragedia, anche questa pochissimo conosciuta in Europa e nel mondo: i rapimenti, gli stupri e l’uccisione di donne native.
È una tragedia che sta tuttora drammaticamente imperversando in Canada (e negli Stati Uniti, ma non solo), un abisso terribile ma ignoto ai più quando si parla di violenza sulle donne – e se ne parla comunque sempre troppo poco – e che è diventato negli ultimi anni uno dei più terribili e gravi scandali dell’intera storia del Canada. Migliaia di donne indigene o delle “Prime Nazioni” – come orgogliosamente e giustamente vogliono essere chiamati i loro popoli – scomparse nel nulla e spesso, poi, trovate, barbaramente uccise dopo probabili (ma talvolta provati) stupri. Solo ora il velo sta cadendo e si moltiplicano le manifestazioni per chiedere tutta la verità su questi crimini e i loro responsabili.
Si tratta di una ferita dolorosa e per questo in parte ancora rimossa per il civile e sviluppato Paese del Nord America, uno degli Stati con la più alta qualità di vita del pianeta, preso ad esempio per essere un modello di integrazione multietnica e interculturale. È stato pubblicato, nel giugno 2019, un impressionante, spaventoso e documentatissimo report su queste sparizioni e assassini di donne avvenuti negli ultimi decenni, composto di migliaia di pagine.
Il report è stato voluto, sotto la pressione di molte associazioni e denunce di gruppi nativi o native canadian, dal primo ministro canadese, Justin Trudeau. La commissione di inchiesta ha lavorato due anni per produrre questo documento ricco di testimonianze, dati e prove. Una delle conclusioni del Rapporto è un appello a tutta la popolazione canadese perché sia presente, solidale e partecipe affinché questo femminicidio, coperto spesso dall’omertà o dalla comoda voglia di non sapere, abbia finalmente e definitivamente termine.
C’è un clima ancora molto teso tra le comunità di nativi e le istituzioni pubbliche e, molto spesso, tra i nativi o indiani canadesi e il resto della popolazione: specie quella bianca, che siano nordamericani o europei poco importa. Le esperienze terribili e devastanti che sono successe in questi anni e decenni in Canada (come, peraltro, nei confinanti Stati Uniti) e che continuano ad accadere a migliaia di famiglia di nativi con figlie (e spesso si tratta di ragazze o ragazzine), sorelle, madri hanno causato ferite e dolori eterni e una rabbia molto profonda per la mancata giustizia che quasi sempre si è manifestata riguardo queste sparizioni o questi omicidi.
Indagini frettolose, superficiali; parzialità razzistiche; coperture o indifferenza a livello delle varie istituzioni nazionali o locali; probabili complicità in alcun casi della stessa polizia nel merito delle investigazioni, considerate quasi di serie B proprio per elementi di razzismo; rabbia per l’impossibilità di risalire ai colpevoli, ai rapitori ed assassini, e per non avere mai più notizie delle proprie congiunte: donne dissoltesi nel nulla da un giorno all’altro, missing, “scomparse”, come vengono chiamate. Per poi diventare, tragicamente, non di rado, murdered, “assassinate”.
Una tragedia rimasta senza giustizia e quasi sempre senza voce di cui ha parlato anche il film-documentario shock dal titolo emblematico River of silence (“Il fiume del silenzio”). Le parole delle accuse della commissione sono pesantissime: «Le violenze su queste donne trovano ragione nella inazione dello Stato e nel colonialismo con le relative ideologie connesse, basate su una presunta superiorità». Non si conosce il numero esatto delle donne scomparse o uccise né, probabilmente, lo si conoscerà mai poiché tanti familiari, per paura di ulteriori violenze di stampo vendicativo, non hanno parlato, anche perché a conoscenza del fatto che le indagini non sarebbero state condotte con reale zelo. Si ritiene che questo numero, al ribasso, sia di quattromila donne native americane scomparse o uccise.
Terribile ed emblematico ciò che accadde nel novembre 2014 alla studentessa nativa, allora sedicenne, Rinelle Harper, la cui drammatica testimonianza ha fatto crollare un muro decennale di omertà e si è imposta all’opinione pubblica. Venne trovata nuda e in fin di vita nel fiume Assiniboine da due operai edili, che la coprirono con i loro cappotti per ripararla dal freddo e chiamarono un’ambulanza. La ragazza era stata ripetutamente stuprata da due uomini bianchi e gettata nel fiume. Riuscita a tornare a riva, l’adolescente venne barbaramente aggredita di nuovo fin quando, perduti i sensi, fu ritenuta morta dai suoi assalitori, che la abbandonarono alla corrente del fiume. Ripresasi, riuscì poi a raccontare quanto le era drammaticamente accaduto e a testimoniare.
Il commissario capo della Commissione che ha firmato il rapporto governativo, la giudice Marion Buller, giurista delle First Nations, della provincia della British Columbia, ha sintetizzato così un aspetto della situazione: «La dura realtà è che noi viviamo in un Paese in cui le leggi e le istituzioni perpetuano le violazioni dei diritti fondamentali che hanno portato a questo orrendo genocidio di donne, di tantissime ragazzine».