Fino ai 2 anni di età ha uno sviluppo normale, pronuncia le prime parole, gioca e comunica con lo sguardo con la mamma e il papà; verso i 3 anni c’è una implosione: Andrea viene diagnosticato autistico. Siamo negli anni Ottanta: ancora poco si sa sullo spettro autistico e i protocolli sono inadeguati (peraltro lo sono tuttora). Gli specialisti, per i casi più gravi, prevedono un miglioramento con stimolazioni solo fino ai 7/8 anni, successivamente uno stazionamento della patologia. Non esistono cure.
Ma i genitori di Andrea non si arrendono. Numerosi gli incontri con professionisti e assidua la partecipazione a convegni, dal Nord Europa all’America, fino a che il papà, Virgilio Paolucci, ha il suo incontro fortunato: grazie ad una professoressa del Cnapp (Centro studi in neuroriabilitazione) viene a conoscenza del metodo Caa (comunicazione aumentativa alternativa). Inizia qui un percorso di uscita dal pozzo (termine col quale lo stesso Andrea Paolucci definisce il suo stato).
La terapia è lunga e faticosa. Si basa su due cardini terapeutici: la propriocezione (la capacità di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio e lo stato di contrazione dei propri muscoli, senza il supporto della vista) e la indicazione. Sarà proprio grazie a questo metodo che il bambino inizierà a scrivere e comunicare con mamma e papà, a terminare gli studi superiori e addirittura laurearsi in Scienze della formazione e del Servizio sociale all’Università degli studi dell’Aquila. Nel 2014 discute la tesi La mia vita nel pozzo: Facebook e l’autismo con il professore Alessandro Vaccarelli. Nella tesi racconta la sua esperienza di uscita dal pozzo e il ruolo di Facebook (ma in generale della interazione con l’altro da sé) nel superamento di quella che appare essere una condanna alla solitudine.
«Io sarò per sempre dentro un pozzo ma il suo raggio si allarga in ogni cosa che faccio. Quando studio, quando dipingo davvero ma non quando coloro, quando sto con gli amici, e poi fb ha reso quasi celati ai miei occhi i bordi del cerchio. Ultimamente la mia vita scorre quasi normale, tanti impegni di duro lavoro e splendida luce fa capolino»: così scrive nella tesi. Un percorso di crescita ed integrazione che ripropone, nel 2013, la sua esperienza al di fuori del suo nucleo familiare. Sarà proprio Andrea ad ispirare la nascita dello spazio diurno Polo autismo Sant’Eusanio, centro per attività riabilitative ed educative, gestito dalla cooperativa sociale Loco Motiva, fondata dai genitori.
A completamento del centro diurno vengono attivati Le Stelle, laboratorio integrato con annessa galleria d’arte ed una struttura abitativa per l’accoglienza stabile fino a 5/6 persone. Tutto questo grazie al supporto della Fondazione Varrone, della Diocesi di Rieti e di vari donatori. Il tutto avviene all’interno della città, in un quartiere a rischio. Una esperienza del tutto nuova, svincolata totalmente dai protocolli della medicina ufficiale, l’unica in Italia ad operare con un approccio riabilitativo e terapeutico focalizzato sul modello di comunità affettiva integrata nella città. Una storia straordinaria di cui vengo a conoscenza grazie ad un volantino, una brochure dal titolo Una carezza per l’autismo.
Ad attendermi presso il Polo autismo Rieti, in via S. Eusanio n. 5 , Nunzio Virgilio Paolucci, il papà di Andrea. Non ci conosciamo ma il suo approccio è, direi, familiare. Ad accogliermi anche i ragazzi del Centro con una insolita allegria, impegnati in uno dei tanti laboratori. La mia attenzione è attratta da un giovane che cammina nervosamente, sembra non vedermi invece mi sfiora più volte. Le movenze sono paragonabili a quelle di un cavallo che sta scalpitando per la corsa.
Una donna mi chiede: «Quale è il tuo nome?». Prova a pronunciarlo ma i suoi suoni ricordano quelli dei bimbi quando iniziano a parlare. All’età di 7 anni è stata (scopro) respinta dalla istituzione scolastica (perché troppo grave) ed è rimasta isolata a casa con i genitori fino a 63 anni, fino alla scoperta dell’esistenza del Polo autismo Sant’Eusanio. Anche lei sta facendo qui i primi passi per uscire dal pozzo, sta iniziando a parlare, comunicare e dipingere.
Gli altri ospiti sorridono incuriositi, assieme a due giovani operatori. Virgilio, dal 2013, è impegnato qui a tempo pieno, ha un background che glielo permette: da giovane è stato operatore in comunità di tossicodipendenti e per gli ex degenti dell’ospedale psichiatrico. Insegnante elementare, è poi passato all’amministrazione scolastica, occupandosi di formazione per i docenti di sostegno. L’idea di realizzare uno spazio per persone adulte autistiche nasce da esigenze oggettive: le famiglie, spiega, sono abbandonate a se stesse, non esiste nulla dopo il percorso della scuola dell’obbligo.
«Andrea, è quello mio figlio – mi dice, indicandomi il ragazzo che più mi aveva colpito al mio arrivo -: è un caso grave, che però si è anche laureato! Si può fare è il mio slogan. Non è necessario aspettare o seguire i soliti protocolli, ciò che conta è l’esperienza di vita». Una vita, la sua, dedicata allo studio di una diversità per la quale ancora non si sono trovate risposte, ma che grazie alla esperienza della Loco Motiva ne sta dando di diverse e concrete, dimostrando che (anche dopo i 7/8 anni) c’é la possibilità di camminare verso una maggiore autonomia.
Virgilio, mi sembra di capire che in Italia non esistano strutture di supporto adeguate.
«C’è un vuoto di accoglienza e progettualità nel periodo che possiamo considerare come il cuore della vita, dai 18/20 anni fino ai 65, età in cui per legge entriamo nella terza età. Il che vuol dire che dovrebbero scattare azioni e servizi di accoglienza ma che di fatto non accade nulla, neppure per gli anziani. Molti genitori sono costretti a tenere segregati i loro figli in casa e specialmente nei casi più gravi è molto difficile gestirli all’interno delle mura domestiche, anche per lo svilupparsi di inevitabili manifestazioni di aggressività».
Il rapporto col mondo esterno, dunque, è stato fondamentale per Andrea.
«Certamente. Nonostante sia un caso di autismo molto severo è riuscito anche a proseguire negli studi universitari. Andrea è il primo ragazzo autistico ad essersi laureato in Italia. La sua tesi di laurea racconta molto della sua esperienza e si sofferma sulla possibilità di comunicare attraverso i social e in generale sulla importanza di comunicare, una necessità che sentono tutti coloro che vivono la vita nel pozzo».
La scrittura sulla tastiera è stata il volano della sua rinascita.
«Non è stata una cosa facile, anche adesso Andrea ha ancora bisogno di essere affiancato da un operatore specializzato pur comunicando in totale autonomia. È stata una operazione faticosissima con dei grandi ed inaspettati risultati. Ci ha consentito di calarci nel suo pozzo e di comunicare con lui, con vera emozione e sorpresa. Crescere un figlio senza poter comunicare è terribile: l’autismo è terribile; è il disturbo più brutto, subdolo, pervasivo e permanente. Non si conosce ancora la causa. Intorno ai primissimi anni di vita improvvisamente il bambino può diventare autistico».
Dunque all’inizio ha una crescita normale?
«Sì, ha una buona interazione con i giocattoli, pronuncia le prime paroline, ti guarda negli occhi. Poi improvvisamente implode, perde la manualità, il linguaggio verbale, l’espressività. Ce lo siamo perso all’improvviso. Andrea aveva 2/3 anni, ora ne ha 36».
A quale età ve ne siete resi conto?
«Tra i 3 e 4 anni. All’epoca non si conosceva l’autismo: c’erano pochi casi e nessuna terapia. Neanche ora esiste, ma almeno se ne parla di più, perché sono tantissimi. Siamo passati nel giro di due generazioni da 1 caso ogni 10.000 bambini ad uno ogni 80. Sembra di assistere ad una pandemia: aumento riscontrato anche in altre patologie quali l’iperattività, i disturbi alimentari o la dislessia».
Come è stato il primo periodo?
«Abbiamo fatto tutti i giri possibili, devo ammettere tutti a vuoto. Ciò che lo ha migliorato e lo sta aiutando a crescere è l’avere un Centro nel quale esprimersi. La vita in comunità è fondamentale. Il famoso protocollo medico riferisce che per questi bambini si può fare qualcosa solo fino ai 7/8 anni e che dopo c’è uno stazionamento e si deve lavorare sul mantenimento delle abilità acquisite: non è vero, la pratica nel centro ci racconta ben altro. Abbiamo qui persone autistiche di circa 50/60 anni che riescono a fare progressi riguardo sia la comunicazione sia l’autonomia; naturalmente siamo supportati da figure professionali, abbiamo in sede lo psicologo, gli psichiatri, gli educatori».
Ormai operi qui a tempo pieno.
«Direi di sì. Mi adopero quotidianamente per organizzare un progetto di vita per queste persone, contrariamente alla tendenza generale. Sono andato anche in America e in Nord Europa. Ci sono comunità, ma di solito sono fattorie sociali, collocate in campagna: così non si fa integrazione sociale. Noi qui a Rieti abbiamo realizzato questa struttura all’interno della città e questo significa moltissimo. Qui i ragazzi vanno al supermercato, a teatro, al cinema, passeggiano nella città. Nel quartiere li chiamano per nome, addirittura fanno piccole commissioni. Vivono in una comunità affettiva, non devono essere trattati da malati, da diversi. È una esperienza unica in Italia».
Con sua moglie vi siete divisi i compiti?
«Mia moglie si è occupata della salute e dell’educazione. Io, essendo uomo di scuola, ho curato l’aspetto della socializzazione e dell’inclusione. La scuola ovviamente ha rappresentato un problema perché Andrea non era in grado di comunicare, ma soprattutto il personale scolastico non è formato e informato, fermo restando che a livello legislativo solo in Italia esiste una legge sulla integrazione scolastica. In Europa e in America ragazzi o bambini che hanno questo tipo di problematiche sono assistiti all’interno delle mura domestiche e non hanno neppure il permesso di uscire fuori per mangiarsi un gelato».
Quando c’è per voi invece la svolta decisiva?
«Grazie ad convegno del Cnapp sentii parlare una dottoressa che illustrava la possibilità di migliorare concretamente la condizione autistica attraverso l’induzione alla indicazione e la propriocezione, per stimolare una percezione del proprio corpo. Rimasi colpito, la contattai subito. Naturalmente il lavoro è stato lungo, ma il miglioramento nella percezione di sé è stato enorme. Siamo partiti dalla propriocezione per arrivare alla indicazione, ad esempio di oggetti o parole. Prendiamo il sì e il no: col sì e no abbiamo scoperto che si possono fare discorsi infiniti».
Qual è stata la prima parola scritta da Andrea sulla tastiera?
«La parola Sì. Da lì ha iniziato a scrivere molte cose, imparato ad esprimere frasi più a senso. Pian piano ha acquistato abilità con precisione ed autonomia ma anche tutta una serie di notizie dalla rete, la capacità di lettura globale, anche andando in giro per la città. Con questo metodo è riuscito addirittura a laurearsi».
Quali sono le state le prime vostre domande di genitori?
«Per 11 anni lo abbiamo considerato una persona con ritardo mentale, gli abbiamo chiesto se poteva perdonarci. Lui ha perdonato, ha risposto che non potevamo sapere. Ho cercato di proporre la stessa esperienza ad altri genitori, anche alle Asl e alla scuola, ma non è stato facile: non c’è ancora una preparazione che favorisca l’adozione di un percorso diverso».
Ci sono diversi tipi di autismo?
«Anche la Thunberg è autistica ma ad alto funzionamento. Riguardo la consapevolezza di sé, però, non esiste alcuna differenza tra alto e basso funzionamento. Nella tesi di Andrea si capisce bene questo aspetto: la sua consapevolezza di essere, esistere, ma vivere nel pozzo».
Andrea continua a comunicare attraverso la scrittura?
«Scrive, ma non sempre: per creare ha bisogno di silenzio, concentrazione e del supporto di un operatore formato. Numerose volte ha prodotto pensieri che esprimono profondità e consapevolezza, soprattutto in occasione di eventi importanti quali il terremoto o la guerra, ha partecipato alla scrittura di testi per canzoni musicate dal mio gruppo, i Dna. Subito dopo l’università la scrittura è stata usata in maniera perlopiù funzionale, ma ad un certo punto abbiamo capito che aveva bisogno di comunicare costantemente e infatti ora sta ultimando la stesura di un nuovo libro. In realtà ci aspettavamo il solito libro di un autistico che racconta di sé, invece è una storia strana: un giallo i cui personaggi si ispirano a persone reali che frequentano il Polo. Un racconto originale scritto in maniera inusuale, perché Andrea ha un modo di esprimersi simile alla poesia, o all’impressionismo pittorico».
Avete avuto dei partner di qualità?
«Il progetto è stato sostenuto dal vescovo Pompili, che ci ha messo a disposizione i locali e la struttura abitativa; la Fondazione Varrone ha coperto alcune spese importanti perché noi siamo una Aps e ci sosteniamo economicamente solo con una quota mensile delle famiglie. Le spese ordinarie sono notevoli, anche per il mantenimento di un personale qualificato. Al momento ci occupiamo di 15 adulti, di cui 12 con autismo o patologie afferenti allo spettro autistico. Li ospitiamo dalle 9.30 alle 18.30 dal lunedì al venerdì e le attività sono differenziate per ognuno. Il programma individuale viene legato ad attività laboratoriali quali motoria, terapia occupazionale, teatro, socializzazione, cinema, arte, musica. Abbiamo anche una struttura abitativa. Alcuni ragazzi, col sostegno di un operatore, dormono e vivono nella struttura 2 notti a settimana. Stiamo sperimentando la vita in abitazione, per un loro futuro in autonomia. Grazie a questa iniziativa stanno imparando ad occuparsi di sé e a incrementare la socialità: di sera vanno anche al cinema, ma l’appuntamento fisso è l’apericena ed agli aperitivi partecipa tutto il quartiere».
Un quartiere difficile.
«Siamo, anzi eravamo, in un quartiere a rischio per l’esistenza del Sert e di numerosi stranieri. Qui venivano a spacciare, erano frequenti le risse e fenomeni di prostituzione. La nostra presenza ha cambiato il tessuto sociale. I nostri ragazzi escono con serenità, hanno donato una idea di sicurezza e appartenenza. Durante le ore notturne sono gli stessi abitanti a custodire il quartiere e il Polo, perché sono riconoscenti. Realtà come questa andrebbero imitate in tutti i rioni a rischio delle città italiane».
Un esperimento riuscito grazie al coraggio di trasgredire.
«Bisogna vivere sul campo, servono meno tecniche e protocolli. Inoltre, qualsiasi attività riabilitativa va adattata secondo la taglia di ogni persona. Vorrei che questa esperienza di Rieti fosse ripetibile e che dia coraggio ad altri. Noi abbiamo camminato da soli, siamo partiti dal reperimento dei locali e poi abbiamo riciclato arredamenti ed oggetti, frutto di doni. Un appello che lancio ad altri genitori è di non aspettare: vorrei che l’emulazione fosse completa anche nel pensare che l’integrazione deve partire dal quartiere».
Continua ad essere cruciale una sensibilizzazione sul tema nelle scuole?
«Certamente. Facciamo formazione anche nelle scuole, non per indicare cure o soluzioni terapeutiche ma per far comprendere la patologia, le dinamiche, i comportamenti. Infatti siamo sportello autismo per Rieti e Provincia. È un supporto per le famiglie, gli operatori sanitari e scolastici”.
Avete attivato anche lo sportello “Una carezza per l’autismo”, grazie al cui volantino sono qui. Di cosa si tratta?
«Di uno sportello di consulenza ed interventi per la genitorialità, l’affettività e la sessualità delle persone con gravi disabilità e autismo, un tema poco conosciuto ed affrontato. Abbiamo a disposizione una sessuologa e due operatori affettivi».
Quali le iniziative a breve e medio termine?
«Si è appena appena chiuso il concorso internazionale Arte a cavallo, ispirato alla figura del cavallo. La mostra si potrà visitare per tutto il mese di aprile; anche i ragazzi esporranno alcune opere. Dal momento che il laboratorio di ceramica sta andando molto bene, inizieremo un percorso di attività produttiva. È partito anche l’inserimento nel mondo del lavoro: due dei nostri ragazzi sono in fase di tirocinio in un ristorante di Rieti nel fine settimana».
Ci piace concludere questa immersione salutare in un mondo umano con dei versi di Andrea, messi a conclusione della sua tesi:
Che bello se potessi di normali sensi essere
dotato mi sollazzerei con un solo buon
bicchiere di vino perché se mi ubriacassi
ne perderei tutto il gusto, così le opportunità
della vita e gli strumenti di quest’era
post moderna.
Quale grande saggezza!