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I 100 anni di Pasolini: il ricordo degli alunni di Ciampino, il mistero sui suoi killer

Lavagnini (Archivio Pasolini): «Era indipendente, non andava bene a nessuno». L'avvocato Maccioni: «I killer furono più di uno: chi sa, parli»

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«Pasolini non lo voleva nessuno, si chiacchierava già. Andavamo a prenderlo alla stazione del treno con Vincenzo Cerami e altri amici. Ricordo ancora quell’episodio dello spazzino claudicante che si trascinava il bidone dietro, preso in giro da alcuni ragazzi e la lezione che quel giorno tenne in classe sul lavoro degli umili. Esordì con: “Devo sottolineare una situazione vergognosa”, riferendosi a quel comportamento visto in strada. “Voi siete figli di professionisti. Il lavoro più importante è quello di chi sta facendo qualcosa di umile per gli altri”».

Foto DIRE – www.dire.it

Franco Avaltroni, che vive ancora a Ciampino, racconta all’Agenzia Dire quei mesi in cui ebbe come supplente Pier Paolo Pasolini, di cui oggi ricorre il centenario dalla nascita, nella scuola media parificata “Francesco Petrarca” di Ciampino, alle porte di Roma, che oggi non esiste più e mostra con orgoglio lo scudetto della squadra di calcio della scuola in cui anche l’insegnante Pasolini giocò diverse partite.

Accanto al portone di quello che è ormai un normale palazzetto c’è una targa su pietra nera che ricorda quella è stata la prima stagione romana di Pasolini. Sono gli anni dal 1952 al 1954-1955 e lui, poi gigante della poesia e del teatro, è ancora per tutti solo il “professore” nella piccola scuola di via Principessa Pignatelli, a due passi dalla piazza della cittadina. Proprio nei suoi viaggi da pendolare di quel periodo scriverà “Il pianto della scavatrice”, “Le ceneri di Gramsci” (1957) e sempre nella stessa raccolta, nel poemetto Appennino, parlerà di «Ciampino, abbagliato sotto sbiadite stelle», consegnando a fama immortale una città come tante altre.

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L’Agenzia Dire, per il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, ha contattato alcuni di quegli studenti, oggi ottantenni, che negli anni hanno mantenuto un rapporto e hanno ricordato quelle giornate di scuola, le lezioni, le gite, le partite a pallone quando, prima di essere conosciuto, lo scrittore nato a Bologna e vissuto nella cittadina natale della madre, Casarsa della Deliza (Pordenone), nel cui cimitero riposano entrambi l’uno accanto all’altra, era l’insegnante di lettere di un’anonima scuola di provincia.

«Allora non era famoso – ricorda Laura Bonifaci, che vive a due passi dalla scuola ed è stata sua allieva per tutti gli anni delle medie -. Era fuggito dal proprio paese con la mamma. Hanno fatto la fame: all’inizio erano ospiti di parenti a Roma». Apre le porte della sua casa e mostra con orgoglio quel libricino della “Sirenetta” di Andersen con una dedica scritta per lei da Pasolini nel 1953 e che conserva con cura insieme al quaderno nero delle poesie e dei dettati. «Faceva delle gare scolastiche – racconta – e ci dava dei premi, comprava dei libricini della Bur, come questo».

«Era sempre vestito molto pulito, ordinatissimo, con la sua cartella con i fogli delle lezioni, la scrittura sottile. Era una persona molto seria, dolce, amabile, aveva quel modo di parlare, quell’accento…»

Foto DIRE – www.dire.it

«E ci faceva sentire grandi – continua ancora Laura nel suo racconto -, ci dava importanza, teneva una lezione socratica, tutta costruita sul dialogo. Facevamo latino. Abbiamo studiato Dante, la poesia del ‘900, Ungaretti, Saba, Palazzeschi, autori che non ho più studiato nemmeno al liceo. Pascoli anche, Carducci invece non gli piaceva molto. Quando andò via, l’ultimo trimestre stava scrivendo “Ragazzi di vita” per partecipare al Premio Strega e restammo molto addolorati tutti quanti».

Anche Elide Di Giulio, che oggi vive ad Ostia e non ha più incontrato gli studenti di Ciampino, ha frequentato la terza media con Pasolini, e ricorda con rammarico di non averlo più visto: «Era molto severo con i maschi, ma con noi ragazze era più dolce. Mi chiamava Elide con l’accento sulla I, diceva che si pronunciava così». Della morte Elide viene a sapere, come tutti, dalla televisione e resta sconvolta: «Per me era una persona educatissima, di buon senso e tutte le cose venute fuori credo siano state per la cattiveria e l’invidia di chi gli stava intorno. Per noi ragazzi era uno di famiglia, anche se sapevamo che era già sulla strada di diventare famoso».

La stessa reazione di fronte alla morte violenta di Pasolini “il professore” ce l’ha Elvezia Marchesi, che vive ancora a Ciampino: «Hanno presentato tutto come fosse una persona poco per bene, e invece no, io lo ricordavo, era il mio professore. Da ragazza sa… sulla questione dell’omosessualità rimasi un po’ così, lui comunque aveva predetto quel momento. Di lui ricordo che era fortemente contrario al consumismo. Prima quando dicevo che ero stata allieva di Pasolini mi guardavano in modo strano, oggi invece no».

Non c’erano solo le lezioni in classe, ma «la gita a Napoli – ricorda sempre Elvezia – e stava sempre insieme alla professoressa di ginnastica, una ragazza così carina, noi pensavamo fossero una coppia. Mi regalò un libricino per una gara». E racconta quando alcuni genitori ebbero da ridire perché per spiegare i genitivi latini Pasolini per distinguere le famiglie di sostantivi usò due “simboli” del tempo: lo scudo crociato e la falce e martello. Eppure «di politica non parlava mai – precisa Laura – e mai di argomenti scabrosi. Saltammo anche il Canto di Paolo e Francesca. Ci dava tanti temi, ci diceva “Guardate fuori dalla finestra e scrivete“».

Responsabile dell’Archivio Pier Paolo Pasolini di Ciampino è Enzo Lavagnini, che è anche nel Comitato scientifico del “Centro studi e ricerche” sull’autore. «C’è sempre stato – spiega nel corso dell’intervista – un imbarazzo della politica rispetto a Pasolini sin dall’ inizio».

Le tombe di Pasolini e della madre al cimitero di Casarsa

«Aveva “L’Unità” in tasca e quella era la sua radice, ma questo non gli ha impedito, come su Valle Giulia o sull’aborto, di essere sostanzialmente critico. Insegnava ai ragazzi a cercare un punto di vista originale nella vita».

Nel “Libro bianco di Pasolini” (Aliberti editore) uscito da poco, Lavagnini insieme a Francesco Aliberti e Alessandro Di Nuzzo ricostruisce quella che non esita a definire «una persecuzione giudiziaria, dal primissimo processo del ‘49 in Friuli ad altri rimasti in piedi anche dopo la morte. Fu processato per vilipendio alla religione, oscenità e censura, fino all’accusa di rapina a mano armata ad un benzinaio. Non andava bene ai moralisti, alla destra neofascista ma nemmeno al Pci. Ha passato 30 anni, giorni e giorni e soldi, nei tribunali a difendersi per il suo essere diverso, anche sessualmente, per la sua indipendenza di giudizio», rimarca Lavagnini.

Un destino che non combacia con quell’eleganza, dolcezza, profondo amore per l’insegnamento che i giovani adolescenti ricordano di lui e che arrivava da quei dialoghi, dalla lettura delle poesie, delle nenie friulane.

Laura Bonifaci riuscirà con altri quattro ex alunni a rivedere Pasolini quando ha già lasciato da un po’ la scuola di Ciampino: «Ci è venuto a prendere a piazza Argentina e andammo a Monteverde dove viveva con la mamma. Quella donna sembrava una Madonna addolorata. Preparò dei dolcetti per merenda. Penso sempre a quando gliel’hanno ucciso, alla tragedia grande che è stata per lei».

E oggi che quel professore anonimo dei ragazzi di Ciampino, con pochi soldi in tasca e in fuga dal Friuli, è un’icona della cultura nazionale c’è il rischio che diventi un brand? «È un ossimoro, non accadrà», è sicuro Lavagnini. «Pasolini si mantiene al sicuro da solo, è uguale solo a se stesso».

E sulla morte: «La sua fine sottolinea il rapporto strano che c’è tra giustizia e verità: non è stato solo un martire ma è stato anche un capro espiatorio dell’odio sociale. So che non può essere stato solo Pelosi: fino ad oggi non sappiamo chi altri. Tentativi di riaperture parlamentari sono stati tanti, ma ancora oggi Pasolini – conclude Lavagnini – non ha trovato degna sepoltura e questo come italiani deve un po’ tormentarci».

«Chi sa delle cose e ha degli elementi esca finalmente fuori per fare chiarezza, perché è inaccettabile che ancora oggi non si siano scoperti i veri assassini di Pasolini». È l’appello lanciato attraverso l’Agenzia Dire dall’avvocato Stefano Maccioni, già legale della famiglia di Pier Paolo Pasolini, trovato morto all’idroscalo di Ostia il 2 novembre 1975, assassinato in circostanze ancora oggi non del tutto chiare.

«Con le debite differenziazioni la vicenda ci ricorda quella di Stefano Cucchi – prosegue Maccioni – quindi faccio lo stesso appello che fece allora Grasso: chi sa parli, perché se nessuno parla, pur avendo noi a disposizione tre DNA da comparare, sarà difficile arrivare alla risoluzione». Secondo l’ex legale, è «praticamente come avere in banca dati tre fotografie che non vengono comparate per vedere di chi sono. È sconvolgente ad un certo punto far calare il sipario avendo invece degli elementi che potrebbero farlo riaprire. L’amarezza è sempre stata questa. Sono passati tanti anni, è vero, forse qualcuno non è più in vita, va bene, è probabile e possibile, ma perché chiudere definitivamente il caso? Anche perché – sottolinea l’avvocato Maccioni – adesso sappiamo un dato certo, cioè che Pelosi non fu l’unico ad uccidere Pasolini, quindi non si tratta più di un delitto sessuale, come si è detto fino al 2008, ma lo scenario è cambiato e sappiamo tante cose».

La vicenda dell’assassinio di Pasolini è ferma al 14 dicembre 2017, quando la Procura di Roma decise di archiviare nuovamente il caso. Ma c’è una qualche speranza che si riapra? «Per adesso francamente no. A meno che – risponde il legale – esca fuori qualcuno che confessi, non reggendo più il carico morale dopo tutti questi anni di silenzio. Ma non lo ha fatto neppure Pelosi… Certo, alcuni soggetti che potrebbero essere coinvolti sono ancora sicuramente in vita».

Rimarrà quindi avvolta nel mistero la morte di Pasolini? «Più che un mistero, la sua morte non potremo definirla in maniera chiara ai nostri figli – risponde ancora alla Dire l’ex legale della famiglia –. Non potremo raccontare chiaramente loro cosa è accaduto in passato e chi ha ucciso Pasolini. C’è molta nebbia in quella vicenda, così come in tutte quelle legate agli anni della tensione tra il 1970 e il 1980. Non è mai stata fatta chiarezza e sembra che le cose debbano rimanere sempre così. Rimarranno delle ipotesi, ma di certo posso dire con certezza che abbiamo un DNA, misto a quello del sangue di Pasolini, che sicuramente è stato lasciato quella notte sul luogo dell’assassinio. “Io so e ho le prove”, parafrasando Pasolini, che quella notte Pelosi non era solo all’idroscalo di Ostia e questo, per me, cambia moltissimo. Poi ognuno – conclude Maccioni – la legga come vuole».

(Agenzia DIRE – www.dire.it)

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