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Alessandro Marinelli: quando il film-documentario dialoga con la realtà

Regista da vent'anni nel mondo del cinema, premio “Arco d’argento” per il docufilm sulla rinascita nei territori del sisma del centro Italia

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Il suo ultimo documentario “Il tesoro del Sud. Viaggio nel Paese che cambia” è stato presentato al 53º Giffoni Film Festival il 26 luglio durante un evento speciale. Alessandro Marinelli, attivo dal 2003 come regista, montatore (anche di videoclip, come “Barrio”, la hit dì Mahmood), nonché docente di documentaristica e di montaggio alla Rome University of Fine Arts (Rufa), si racconta.

Lo fa a poco tempo dal conferimento del premio “Arco d’argento” per un altro suo documentario, “Terre mutate” (2022), che racconta la storia di chi non si è arreso di fronte alla distruzione e alle centinaia di morti e feriti che ha causato lo sciame sismico che ha colpito il centro Italia tra il 2016 e il 2017.

Molti paesi sono stati distrutti e molte comunità si sono disgregate, costringendo migliaia di persone ad abbandonare la loro terra. Alcuni di loro, coraggiosamente, hanno deciso di restare, impegnandosi in prima persona a ricostituire il tessuto sociale.

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Quando hai deciso di fare il regista? E perché?

«In realtà non c’è stato mai un momento in cui mi sono detto “voglio fare il regista”. È stato un processo graduale e articolato nel tempo. Inizialmente mi sono formato come montatore e per diversi anni ho montato film di fiction e documentari. Nel 2011 sono venuto a conoscenza della coraggiosa storia di Pino Masciari, imprenditore calabrese e testimone di giustizia, e ho deciso di raccontarla in un docufilm. Ovviamente, non avendo una produzione a supporto, non è stato facile realizzarlo, ma l’urgenza e la voglia di raccontare questa storia sono state più grandi degli ostacoli. Il film ha ottenuto diversi riconoscimenti, tra cui il Premio Ilaria Alpi 2014. Da lì nasce il mio percorso come regista: il mio scopo era raccontare storie di realtà non conosciute e raccontarle da un punto di vista inedito».

La tua soddisfazione più grande?

«Potrei dire che la soddisfazione più grande sono stati i premi e i riconoscimenti ricevuti in questi anni. Andando avanti nel tempo però mi sono reso conto che l’aspetto che mi soddisfa maggiormente, al di là del successo del film, è proprio il processo di lavorazione del documentario, la fase stessa delle riprese: entrare in contatto con i personaggi, stabilire un rapporto di fiducia con loro, creare una relazione».

Cosa ti ha spinto a dirigere “Terre mutate”? Quale pensi sia il pubblico a cui è indirizzato?

«L’idea di questo film nasce per raccontare il grande “cantiere educativo” portato avanti dalle comunità dell’Appennino centrale, per dare speranza a ragazzi, famiglie e comunità. Quando sono arrivato nei territori colpiti dal sisma ho constatato che la ricostruzione non era ancora ripartita, dunque immaginavo di trovare persone arrabbiate, ferite e stanche. Dai loro racconti è emersa invece la dignità e la forza di una comunità innamorata della propria terra, delle proprie tradizioni e radici, che auspica di rimanere sul proprio territorio, avviando iniziative atte a migliorare la loro condizione e quella degli altri, soprattutto dei bambini che hanno sofferto più di tutti l’isolamento».

«Questa dignità e forza, insieme all’attaccamento al territorio e alla speranza verso il futuro, sono gli aspetti che più mi hanno colpito e che ho cercato di restituire in questo documentario. Credo che non ci sia un pubblico di riferimento a cui il documentario sia destinato: è un film per tutti. Sono storie di cittadini comuni, non di eroi, che hanno fatto rete, comunità, restando sul loro territorio per cercare di migliorarlo».

Hai un rimpianto professionale?

«Non c’è un rimpianto professionale vero e proprio. Forse i miei rimpianti professionali sono i film che non sono riuscito a realizzare. Per svariate ragioni non tutti i film che si mettono in cantiere vanno in porto, ma fa parte del percorso; anzi, spesso si impara più dalle delusioni che dai riconoscimenti ottenuti».

E un’aspirazione?

«Sicuramente la mia aspirazione è continuare a fare con passione il mio lavoro, poter raccontare delle storie che possano coinvolgere, emozionare, far riflettere il pubblico, ma anche farlo divertire o più semplicemente aggiungere qualcosa all’esperienza di ognuno. L’aspetto più interessante del cinema documentario è proprio il fatto che lavora con la materia prima della realtà e il pubblico si può riconoscere con queste storie, può farle proprie».

Quando il cinema, oltre a distrarci, si avvicina anche a noi, ci porta a riflettere e produce un cambiamento virtuoso. Perciò, ringrazio di cuore Alessandro Marinelli, che con il suo pregevole lavoro porta il cinema a dialogare con la realtà effettiva di luoghi e persone. Vi invito a seguirlo sui suoi social per informarvi sulle sue prossime produzioni. E, se volete, seguite anche i miei “corti” sull’empatia che sto attualmente pubblicando sul mio profilo Instagram.

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Alessandra Lumachelli
Alessandra Lumachelli
Grafologa forense e consulente grafologica, docente, conferenziera e scrittrice, ha pubblicato saggi, romanzi e libri di poesie. Fra gli altri: “Il costo sociale del ghosting”, “Drinking (and Dancing) with L. A.”, “Amore non mio”, “Scrittura creatività e arte”, “Grafologia. Appunti in ordine sparso”. Da sempre attenta a tematiche etiche e sociali, sostiene Survival. Il nome registrato Drinking with L. A. le appartiene.
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