Era soltanto sabato: una mia email, la risposta immediata con allegato il numero di cellulare, la voce inconfondibile al telefono. In un attimo, dal virtuale contatto Facebook alla reale telefonata con uno dei migliori attori italiani viventi. E la mia voce (che Haber scherzando definisce “vocina”) che trema un po’, nell’acconsentire all’appuntamento. Sì, è proprio Alessandro Haber l’ospite della mia intervista, che pretende il “tu” e col quale mi siedo nel locale all’aperto, dopo le presentazioni col suo cordiale staff.
Se fosse stato spagnolo (ma non lo è: è bolognese), il suo cognome avrebbe avuto il significato di “esserci, trovarsi”; e lui in effetti è un po’ dappertutto, nel panorama artistico internazionale, da molto tempo. È stato l’abate di Vallombrosa, Aldo Leone, Angelo Profeti, Antonio Hutter, Amerigo, l’avvocato Ernesto Rinaldi, Baldo Gabrielli, Belluomo, Cachi, il cardinale Giulio Mazzarino, Carlo Lombardi, Celso Conti, Claudio Marinelli, il commissario Rovere, Cornandez, don Fanucci, il dottor Porfirio Guglielmetti, Egeo, Ernesto Corbaccio, Gabriele Bagnoli, Genesio, Gennaro Gramsci, Giulì Zini, Guido Cohen, Hahmed Poggi, l’ispettore Bloch, Madeddu, il maggiore Stefano Strucchi, Marcov, Mario Bonetti, Matteo Mariotti, Mattias, Mino Pomino, Miseno, Momolo, Nicotera, padre Amedeo, padre James, Paolo Malfatti, Papadinos, Perotti, Pietro Pistacio, Platamona, il professor Loredano Zambrini, Robby, Rospo, Salvatore, Sandri, Senigallia, Sergio Naldone, Sgrò, Socrates, Taddeo Borromini, Turi, Ugo Signori, Vittorio Lo Presto, e molti molti altri.
Regista, attore, cantante e scrittore, Haber ha collezionato anche molti premi, fra i quali un David di Donatello, cinque Nastri d’argento e un Globo d’oro. In effetti, non so se porgli le solite domande del mio “Drinking” (quattro fisse: supereroe, macchina del tempo, drink, salvare il mondo, più una a soggetto), comunque lo avviso, che sono “strane”. Accetta: benissimo.
Io continuo ad essere emozionata dalla sua presenza, così la prima domanda risulta a metà: chiedo solamente quale superpotere vorrebbe avere, dimenticando l’eventuale impersonificazione con un supereroe immaginario.
«Se dovessi avere un superpotere, vorrei che ci fosse la serenità, la pace, la possibilità che tutti i popoli e le persone possano vivere in maniera dignitosa. Invece la fame, la sete, le guerre, tutto ciò che porta a ferire il prossimo, a umiliare il prossimo, a considerarsi onnipotenti, e non averne mai abbastanza, non accontentarsi. E allora, interessi economici: chi lo sa cosa c’è che ci manovra sopra, chi gestisce le nostre vite. Vorrei avere il potere di regalare al prossimo l’idea di poter vivere in maniera dignitosa».
Un grande potere! Il mio professore di greco al liceo diceva che la guerra di Troia non era successa per la donna chiamata Elena, ma perché quel territorio era già allora importante dal punto di vista economico. Sulla macchina del tempo indugia.
«Devo dire che la vita mi ha regalato molte cose. Tanti sogni li ho realizzati, la passione che mi ha devastato e mi ha portato poi a scegliere questo mestiere, e mi ha dato molto: non posso lamentarmi. Mi sarebbe piaciuto un tuffo nel futuro. Ma certo il futuro per me è ormai alle porte. Però non so se cambierei. Tutto ciò che è successo negli ultimi anni va troppo veloce, troppo veloce; i ragazzi non ti guardano più in faccia. Noi conquistavamo le cose giorno per giorno, oggi hanno di tutto e di più. Certo, un tuffo nel futuro mi piacerebbe. Però alla fine dei conti, tirando le somme, sono stato bene dove sono stato. Anche perché poi cosa mi aspetterebbe nel futuro? Cosa mi avrebbe dato il passato? Non lo so».
«Quello che mi ha dato il presente: mi ha regalato una figlia, una moglie con cui non sto più, tante donne, tanti amici, e soprattutto il palcoscenico e la macchina da presa, che sono il motore della mia vita, le passioni con cui io riesco ad esprimermi. Non ho mai considerato molto la mia vita come essere umano. L’ho sempre considerata o davanti alla macchina da presa, o sul palcoscenico. Lì mi sento a mio agio, lì mi ritrovo. Lì posso diventare, posso reinventarmi, lì posso toccare il dolore, posso toccare il sorriso, la gioia. Anche se è tutto finto, è talmente finto che diventa vero».
Quindi, non gli serve la macchina del tempo. È quella, la sua macchina del tempo. Parlando del drink preferito, risponde: «Probabilmente il gin tonic. Però mi piace anche lo spritz. Poi il vino, naturalmente. Mi piace il buon vino. D’estate tendenzialmente bevo il bianco, d’inverno bevo il rosso. Mi piacciono i vini buoni. Se devo scegliere una cosa alcolica, il gin tonic mi piace, mi “frizza”, mi mette allegria».
Per la domanda “a soggetto” (o come la chiamo io, “variabile”), mi sembra doveroso accennare al grande artista, recentemente scomparso, che i media misteriosamente hanno quasi del tutto ignorato: Francesco Nuti.
«Francesco? Gli dedichiamo una serata il 12, in Piazza Santa Croce a Firenze». Il 12 luglio, infatti, in Piazza Santa Croce a Firenze andrà in scena “Dammi un bacino!”, in compagnia di Alessandro Haber e di Ugo Chiti, Sergio Forconi, Antonio Petrocelli, Giovanni Veronesi.
«Mi sembra – continua – che siano stati disattenti (i media): non meritava questo. Adesso parlare di lui è complesso. Era una persona molto strana, che si è autoleso, si è autodistrutto. Hanno cercato di salvarlo in tutti i modi gli amici, le persone più care a lui, molto più care di me. Io ho avuto modo di frequentarlo tanto. Ho visto anche il suo decadimento. E non c’è stato verso. Sono andato a trovarlo parecchie volte, ed ogni volta era uno strazio. Lui aveva un talento unico, nel suo genere. Credo che il suo errore sia stato quello di non confrontarsi con gli altri, di non aprirsi, di non fidarsi. Si era creato una corazza, una difesa, un ego, che lo ha portato inconsciamente poi ad autodistruggersi. È stato un artista raro: il suo cinema è riconoscibile. La sua cifra stilistica è unica: di quei comici, era il migliore. E aveva una gran comunicativa, una simpatia, aiutata anche dalla fossetta nel mento».
Alla domanda su come poter salvare, o almeno migliorare il mondo, dice: «Facendo il mestiere che faccio, comunico e cerco di dare emozioni attraverso i testi e le mie interpretazioni. Faccio riflettere le persone, per lasciare un segno. Quando ho fatto “Il padre” di Florian Zeller, dove il protagonista ha l’alzheimer, il pubblico mi ha ringraziato: erano in piedi a piangere. Voglio comunicare emozioni, far dimenticare alla gente che sta in teatro, la realtà quotidiana, portarli in un’isola felice, o malinconica, o drammatica, o dolorosa. Alla fine è un viaggio, un’esperienza che faccio fare agli altri, ma che fanno fare anche a me. Noi attori senza il pubblico non siamo niente. Io devo tutto al pubblico, che credo che mi voglia bene; gli ho sempre regalato molto, e ho ricevuto molto».
Piazza del Popolo appare gremita di persone, è l’orario dell’aperitivo domenicale, la calura sta allentando la morsa diurna. Mi allontano dall’incontro con Haber, ringraziandolo per il tempo che mi ha dedicato, dopo aver sottolineato, con enfasi sincera, l’onore di averlo incontrato di persona. Qualche passo, e salgo in auto. I girasoli ancora in cerca della luce solare dipingono di giallo le colline. Ascolto “La valigia dell’attore”, guidando verso casa, e sorrido.
Dopo “Otello” a Villa Vitali (Fermo, 9 luglio), si può trovare Alessandro Haber a Viterbo con “Antigone”, insieme ad Elena Ferrantini (7 agosto). A Livorno per il “Mascagni Festival”, insieme a Gianmarco Tognazzi (24 agosto). A Trieste con “La coscienza di Zeno” (3 ottobre). A Firenze con “La signora del martedì”, insieme a Giuliana De Sio (27 dicembre).