Cosa sono disposti a fare degli esseri umani disperati, quando l’unica alternativa è morire o arricchirsi? Questo interrogativo è l’aspetto più interessante, ma al contempo anche quello che crea dubbi, emozioni forti e preoccupazione, di Squid Game, la nuova serie sudcoreana targata Netflix più vista e, com’era facile prevedere, più discussa del momento al mondo.
Occupa ormai da settimane il primo posto in classifica e ha una stima di 111 milioni di visualizzazioni, superando un’altra serie televisiva anch’essa di Netflix, Bridgerton, che ha battuto molti record al momento della sua uscita. La serie narra la storia di 456 persone, dei disperati, reclutati per affrontare una sequenza di prove rappresentate dai giochi tipici dell’infanzia: un due tre stella, biglie, tiro alla fune, eccetera.
Cosa c’è di più innocente di un gioco di bambini? Ma questa innocenza in Squid Game diventa incubo. Perché la posta in gioco è: vinci o muori.
Il premio è rappresentato da un’ingente somma di denaro, 45,6 miliardi di won ovvero circa 33 milioni di euro, che aumenta progressivamente via via che i partecipanti vengono eliminati e uccisi. Una trama surreale in cui l’innocenza diventa incubo. E fa discutere la rappresentazione sullo schermo di una violenza così forte.
In un contesto di crudeltà totalmente cieca, di sangue che fa da protagonista macchiando l’anima umana e di motivazioni di persone dalla disturbante superficialità, accade qualcosa: tra tradimenti e morte c’è qualche gesto di rara umanità. Gesti che ci ricordano che anche nella più cupa disperazione abbiamo sempre la libertà di scelta: diventare parte di un sistema dettato dall’orrore o decidere, anche quando questo può condurci alla morte, di restare esseri umani.
Se non ci è dato scegliere come vivere, possiamo scegliere, almeno, come morire?