La plastica ha contaminato ogni angolo del nostro pianeta e anche in questi paradisi, ci sono ormai più rifiuti che conchiglie e le principali cause sono da ritrovarsi nella cattiva gestione degli scarti che è ormai fuori controllo e nella crisi legata all’inquinamento dei mari che è ormai una emergenza globale. In uno studio del 2015 di Science, sui 20 paesi che gestivano peggio i rifiuti di plastica, l’Indonesia si classificò seconda, la Cina prima.
Altro studio condotto dall’università della Georgia ha scoperto che i due paesi asiatici, insieme, immettono nei mari qualcosa come 5 milioni di tonnellate di plastica all’anno. Nei primi 10 paesi per inquinamento marino da plastica figurano altri sei stati asiatici, Filippine, Vietnam, Sri Lanka, Thailandia, Malesia e Bangladesh. A completare la classifica due paesi africani: Egitto e Nigeria. Il 90% della plastica che finisce negli oceani è trasportata da dieci fiumi: otto asiatici, Yangtze, Indo, Fiume Giallo, Hai He, Gange, Fiume delle Perle, Amur e Mekong e due africani, Nilo e Niger. Tutti questi fiumi hanno in comune due caratteristiche: una popolazione molto numerosa che vive sulle loro rive e una cattiva gestione dei rifiuti da parte dei paesi che attraversano.
In questi Paesi le comunità più povere fanno affidamento su materie plastiche monouso a basso prezzo e non esistono sistemi di gestione dei rifiuti o infrastrutture per il riciclo sufficientemente sviluppate che permettono di evitare ad una immensa mole di spazzatura di finire nei corsi d’acqua e infine nell’oceano. La produzione è superiore alla capacità di trattamento delle scorie, così che a farne le spese è l’ecosistema di tutto il pianeta: ogni anno nel mondo, circa 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono in mare, un camion di rifiuti al minuto.
E sulle coste italiane non va certo meglio. Secondo recenti studi, su 24 spiagge monitorate, la plastica è la categoria di rifiuto che batte tutti gli altri, con una percentuale del 65%. Plastica di tutte le forme e dimensioni, dalle bottiglie alle buste, dai tappi alle stoviglie usa e getta, ma anche tanti oggetti derivanti dalla pesca come reti e galleggianti, nasse e lenze, senza contare l’enorme quantità di pezzi di polistirolo, i resti di cassette per il pesce.
Sono anni che la pulizia delle spiagge è diventato un impegno globale, una moltitudine di volontari che si radunano per compiere un lavoro di grande fatica e passione ambientale. Quello che la raccolta dei rifiuti non può recuperare però, sono le microplastiche, frammenti microscopici frutto della disgregazione della plastica dovuta all’esposizione alla luce solare e agli attriti.
Una ricerca ha scoperto che le microplastiche inglobate nella sabbia delle spiagge rende più facile il passaggio dell’acqua attraverso i sedimenti e la cosa influisce sulla velocità con cui la sabbia si asciuga. Accumulandosi, le microplastiche, fungono da isolante, impedendo al calore di raggiungere gli strati più profondi e influendo sulla temperatura della stessa. Certamente non si può pensare che un continuo accumulo non abbia conseguenze, ad un certo punto cambieranno la temperatura e la composizione chimica delle spiagge, alterando tutti gli equilibri dell’ecosistema e coinvolgendo tutte le specie che lo abitano.
Per sottrarsi allo sporco segreto della plastica, per evitare che deturpi luoghi paradisiaci e che lasci un’impronta così orribile e terrificante, sono necessari cambiamenti rapidi e significativi, c’è bisogno di un maggiore sforzo per trovare soluzioni creative o tutto rimarrà una lotta impari, una rincorsa continua.
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