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La morte come spettacolo

Finché non ragioneremo e ci convinceremo tutti della inaccettabilità della morte per cause diverse da quelle naturali il resto dei ragionamenti sarà soltanto ipocrisia

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Parlare della morte non è esattamente un incipit che induce il lettore a proseguire. Ma basta, se ne parla sempre, dirà qualcuno, e invece no, si parla dei morti, si registrano morti ma se si avesse il coraggio di parlare della morte in quanto tale ci sarebbero molti meno morti. Una polemica culturale, forse, o più semplicemente una domanda che rivolgo a me e quindi a voi: fino a che punto c’interessa davvero la morte degli estranei? Molto meno di quanto pensiamo, lo dimostra la politica.

Andiamo subito al punto. La Carolina del Sud ha deciso di offrire ai condannati a morte di quello Stato la possibilità di scegliere tra fucilazione o sedia elettrica. No, non è un bonus con i punti vinti in carcere, è che dal 2013 sono finite le scorte della sostanza impiegata per l’iniezione letale e siccome una legge consentiva al condannato di scegliere tra iniezione letale e sedia elettrica e il governatore, che è un furbone, temeva che tutti avrebbero scelto l’iniezione sapendo che non poteva essere praticata, ha modificato la legge cambiando le opzioni tra fucilazione e sedia elettrica.

Adesso io vorrei sapere in base a questo, e a una polizia che troppo spesso spara per uccidere, mirando al colore della pelle, con quale faccia il rappresentante politico degli Stati Uniti d’America possa porre la questione dei diritti umani finanche all’ultimo fesso sulla faccia della terra. Certo, i cinesi magari esagerano un po’, neanche si sa quante persone uccidono, ma la legalità frapposta dai cinesi è tutta basata sulla legittimità di una politica interna autonoma da altri Stati. La stessa risposta che darebbe Biden se la Cina ponesse agli Usa la questione dei diritti umani. Le teste politiche delle nazioni portano come argomento decisivo il consenso popolare alle esecuzioni capitali e, se non siamo chiari su questo saremmo omissivi, questo consenso c’è, anche se sarebbe facile opporre come ragionamento che se non esistesse la pena di morte, a parità di crimini, la gente lascerebbe lentamente uscire dalla propria testa l’idea che uno Stato che infligga la morte sia giusto, come è accaduto in tutti gli Stati in cui è stata abolita da tempo.

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Ci spostiamo in Medioriente, dispensatore di morte su scala industriale, dove è in corso un massacro, consentito dalla comunità internazionale, del governo israeliano verso i palestinesi e con Hamas che spara razzi sui civili israeliani. Quando arrivano le notizie dei massacri l’interpretazione occidentale è molto meno sensibile dei morti per il Covid-19: non muoiono cento persone al giorno perché hanno respirato un virus ma solo perché sono uscite di casa. Non accettiamo che una vita in Occidente possa finire perché si è diffusa un’infezione che non dipende, salvo prove contrarie mai trovate, dagli esseri umani, ma troviamo accettabile che per mano di cinici macellai muoiano centinaia di persone, donne, bambini, inermi, perché i criminali all’interno del governo israeliano e quelli di Hamas hanno deciso che oggi moriranno centinaia di persone. Qua, dove potremmo frapporre le ragioni che ci portano ad aborrire la morte quando questa si può fermare, accettiamo senza battere ciglio, non tutti naturalmente, che si muoia per mano di altri umani. Là, dove c’è un virus che si diffonde nell’aria che noi lo vogliamo o no, gridiamo allo scandalo alla inaccettabilità della morte.

Riflettendo su questo argomento, avevo provato a ragionare sull’assenza del corpo del morto come elemento che ricordasse la morte. Ma questo poteva essere vero fino a qualche anno fa, quando vedere un reportage da zone di guerra o un servizio sulla pena di morte nel mondo non era frequente. Adesso però siamo sommersi d’immagini della morte e allora si è forse rovesciata la questione ed è l’eccesso d’immagini della morte in circolazione a frenare l’umana empatia o pietà verso chi muore? Proviamo a ragionare con quel che ci offre il circuito informativo. Le morti pubbliche o sono in massa, reportage da Siria e altre zone di guerra oppure dall’India, e allora vedi pile di cadaveri a bocca aperta o che bruciano, oppure non sono. L’immagine della morte dovuta a un incidente è nascosta: ci sono le macchine sfracellate e un telo pietoso sui corpi. Nella colonnina accanto del sito web però trovi in diretta quello che si è sfracellato cadendo da mille metri col parapendio. Urla comprese. Roba da vomito, parola di uno che si occupa di autopsie e cronache giudiziarie da trent’anni. Qual è la differenza? E non chiedo per un amico, chiedo proprio per me perché mi sembra incredibile che qualcuno possa opporre un solo argomento a confutazione della perdita di senso nella morte.

Quindi, siccome o con il corpo o senza corpo la morte è diventata una parola vuota e neanche i numeri, comunque estranianti della personalità della vittima, riescono a restituirci cosa vuol dire concretamente morire e cosa comporta per chi resta vivo, dobbiamo arrivare a una conclusione terribile. La mia morte come individuo, al di fuori del compimento naturale della vita, per malattia o dolo mio o dolo altrui, interessa soltanto me e chi mi vuole bene. La mia morte come essere umano, tornando al concetto iniziale della morte e non dei morti, il concetto che altre persone muoiano e pur non conoscendoli io partecipi del dolore universale è altrettanto morto del morto in carne e ossa. Certo, questi ragionamenti li avevamo già fatti dopo la seconda guerra mondiale, dopo la Shoa, dopo i Gulag, dopo la guerra nell’ex Yugoslavia, lo diciamo ancora oggi mentre brucia il Medioriente, mentre un premio Nobel per la pace si gira dall’altra parte dinanzi al massacro di una parte del suo popolo e poi finisce in galera, ma il punto è: siamo ancora a quel punto lontano nel tempo. La storia è ferma al 1945, non nei suoi termini dialettici ma in quelli filosofici, nel pensiero che dovrebbe sublimare la violenza individuale e di stato per superarla e non per cristallizzarla, siamo ancora al 1945.

L’altro aspetto della questione riguarda il falso approccio dei movimenti per la vita. Attenzione, dietro questa apparente presa di posizione per la vita si nasconde in realtà la mancanza di rispetto per la morte. Sarebbe facile constatare che molti di coloro che seppelliscono feti con nomi e cognomi delle madri da mettere all’indice fanno parte di squadre politiche che non battono ciglio quando centinaia di migranti affogano in mare. Guardano quei bei giubbotti arancioni fosforescenti che tengono a galla i cadaveri come guarderebbero distrattamente la pubblicità tra un tempo e l’altro della partita di calcio: è la vita, dicono! Neanche per niente è la vita, è invece la morte e non sai di cosa parli quando dici che la vita va così e forse non conosci nemmeno la vita quando pensi che implichi di poter morire per mano diretta o indiretta di altri. Poi però dobbiamo con onestà riconoscere che anche parte di coloro che non seppelliscono feti e parzialmente riconoscono diritti ad altri esseri umani ha permesso che si consumassero, quotidianamente queste stragi in mare di persone in fuga da guerre e fame. E allora torniamo al problema iniziale: soltanto l’annullamento della riflessione sulla morte porta alla perdita di senso per la vita. Finché non ragioneremo e ci convinceremo tutti, altro che immunità di gregge, della inaccettabilità della morte per cause diverse da quelle naturali il resto dei ragionamenti sarà soltanto ipocrisia.

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Gianluca Cicinelli
Gianluca Cicinelli
È stato a lungo direttore dell’informazione di Radio Città Futura di Roma. Ha collaborato con quotidiani e periodici nazionali e si occupa principalmente d’inchieste sulle zone d’ombra tra servizi segreti, criminalità organizzata e istituzioni. Ha pubblicato due libri sul rapimento di Davide Cervia. Propone spesso corsi di formazione giornalistica popolare. Ha realizzato la video inchiesta “Coperti a Destra” sulla strage di via Fani del 16 marzo 1978. Attualmente collabora con la Lumsa di Roma.
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