Porto turistico di Igoumenitsa, Grecia occidentale. Sono le 10 del mattino di un giorno di febbraio. Corre l’anno 2019. Al numero 461 di Syvota c’è la sede di una società belga che affitta natanti a vela e a motore. I documenti del Sunseeker Predator 75 – un monoalbero di quindici metri battente bandiera colombiana – giacciono sulla scrivania.
Un uomo sulla cinquantina, il viso abbronzato e un po’ segnato dal tempo, si presenta in agenzia con il passaporto e la patente nautica. È uno skipper turco che da anni organizza crociere nel Mediterraneo. Confida all’impiegata che i suoi prossimi clienti saranno una famiglia di americani di Miami: una coppia con un figlio adolescente che vuole passare un paio di settimane tra le coste turche e le isole greche. Vogliono godersi la «crociera blu», come la chiamano i pescatori locali. Per un marinaio come lui, è una rotta usuale di rara bellezza, sicura attrattiva per tanti turisti.
L’uomo paga in contanti e poco dopo è già sul molo, tra l’andirivieni di skipper e una babele di etnie diverse. Si guarda intorno, ispeziona lo scafo, ci sale, va sottocoperta e controlla che sia tutto in ordine. Tre cabine attrezzate, sei posti letto, una cambusa spaziosa e due bagni. Gli interni sono eleganti, ricchi di boiserie. La barca è seminuova. Sul mercato dell’usato costerebbe intorno ai 120.000 euro. L’indomani, alle prime luci dell’alba, si salpa.
Quattro giorni dopo l’imbarcazione è al largo dell’isola di Sant’Andrea, provincia di Lecce. Naviga a motore e fende le onde a circa sette nodi. La terra è vicina. Un guardacoste della finanza affianca lo scafo: pare un controllo ordinario, uno dei tanti. I finanzieri salgono a bordo. Il libretto di navigazione è in ordine; l’uomo è un professionista del mare, ma tradisce nervosismo. Alla richiesta di notizie sulle persone a bordo, risponde che sta accompagnando una famiglia americana in vacanza nel Mediterraneo. Il suo inglese non è stentato, eppure balbetta. Ad insospettire le forze dell’ordine è soprattutto il suo sguardo, che insistentemente verso la porta chiusa della cabina. I finanzieri decidono di fare un controllo più approfondito.
Sottocoperta non c’è la famiglia americana appassionata di vela. Non c’è la coppia con il figlio adolescente. Quando gli uomini in divisa infilano il naso all’interno, accolti da una zaffata di acido e puzza di sudore, trovano quaranta uomini turchi, dai sedici ai trentadue anni. I loro sguardi sono smarriti, molti hanno il mal di mare. Sono passati prima da Istanbul, la centrale di smistamento del traffico di uomini provenienti da mezzo mondo, poi da Smirne e da lì fino a Bodrum. Poi, a bordo di un mercantile, fino in Grecia, dove hanno incontrato il nostro uomo. Mollati gli ormeggi, facile rotta verso l’Italia.
Quel controllo è tutt’altro che casuale. La sorte dell’uomo si è scontrata con le intercettazioni telefoniche e la cooperazione internazionale messe in piedi dai carabinieri. Finirà in carcere, si farà quattro anni per favoreggiamento di immigrazione clandestina. Lo yacht, insieme ad altre decine di imbarcazioni, è sotto sequestro nel porto di Lecce.
Si scoprirà che quel tizio non si chiama come dice di chiamarsi. Il suo vero nome è un altro, ma i carabinieri che indagano preferiscono non rivelarlo. È uno scafista astuto e capace, che utilizza l’ultimo stratagemma per superare le barriere del Vecchio continente aggirando la polizia internazionale. Il suo è l’ultimo, formidabile chiavistello per violare la «fortezza europea». Un trucco recente, che ha preso piede non solo nel Mediterraneo ma anche nel Canale della Manica. Gli yacht di lusso, a vela e a motore, non attirano l’attenzione delle forze dell’ordine. E i migranti possono essere nascosti sottocoperta, invisibili dall’alto quando un aereo o un elicottero sorvola i mari. Unico segnale esterno, il loro tallone d’Achille, è il notevole abbassamento della linea di galleggiamento delle barche che, nate per portare un numero contenuto di persone, arrivano a contenerne cinque volte di più.
Sono indagini come queste a raccontarci come funziona la mafia dei trafficanti di uomini: chi sono, come e perché hanno iniziato a trafficare, come organizzano le loro attività illecite, quali rotte scelgono e perché, quanto si fanno pagare e come, come eludono i controlli rimanendo per anni nell’ombra, come «fanno rete», come intercettano la domanda di migrazione. Indagini che ne raccontano le parabole, come quella di Josip Loncaric, il più abile di tutti, oggi sparito nel nulla. Origini croate, era a capo di un impero miliardario. Per le sue mani è passato circa il 90 per cento dei cinesi che sono approdati in Italia, insieme a molti clandestini provenienti dal Bangladesh e dalle Filippine. Oppure quella di un altro big dello smuggling, il genio turco del marketing Muammer Küwik, per anni boss indiscusso degli sbarchi illegali nel Mediterraneo.
“Dobbiamo smettere di credere che i trafficanti siano piccoli criminali in cerca di facili e striminziti guadagni. Si tratta di uomini che hanno conquistato fette di mercato sbaragliando la concorrenza con un’offerta all’insegna dell’eccellenza qualitativa”, spiega Alessandro Iacovelli, l’ufficiale dei carabinieri a capo dell’operazione IpocriSea, che nel 2019 si concluse con l’arresto di sei trafficanti internazionali. “Dietro all’immigrazione irregolare”, prosegue lacovelli, “dietro alle decine di migliaia di migranti che ogni anno arrivano in Europa, c’è un’industria fatta di piccoli delinquenti, sì, a volte di miserabili, ma anche e soprattutto di gente in doppiopetto, veri e propri uomini d’affari il cui fatturato mondiale è secondo solo a quello della droga. C’è una rete gigantesca, fatta di «agenti», come li chiamano i migranti, che interagiscono facendo business da remoti punti del globo: una rete di persone che organizzano le migrazioni clandestine. Lo scafista è solo la punta dell’iceberg. A volte, lui stesso è un migrante che si ripaga il viaggio mettendo a frutto presunte doti di skipper. A volte è un piccolo criminale, altre volte un «medio» delinquente. Dietro di lui c’è un universo criminoso tutto da raccontare. Occorre andare a fondo, dunque: solo così si metterà fine alle strumentalizzazioni politiche del fenomeno, alla miopia con cui lo si osserva da tempo. E si farà chiarezza. Si comprenderà che non è arrestando qualche giovane scafista che il problema si risolve. L’aspetto che più mi ha colpito di questa operazione non è stato tanto quello di aver messo in luce alcuni aspetti – ancorchè inusuali – di stretta matrice logistica (tipicamente, la storia del Sunseeker Predator 75), quanto l’aver contribuito a tratteggiare i contorni di un establishment tanto sconosciuto, quanto potente. Un sistema gestito da organizzazioni criminali sempre più articolate, con una vera e propria sensibilità imprenditoriale: creatività e astuzia sono le loro armi migliori. Il modello organizzativo fa dell’adattabilità a ogni situazione un imprescindibile punto di forza. Criminali, certo, ma imprenditori. Fanno rete ma in maniera fluida, costruendo il business sulla fiducia e sulla parola data. Si ristrutturano velocemente: sventata una rete se ne crea subito un’altra. Un network criminale straordinariamente flessibile, dove la creatività dei trafficanti può arrivare a sfiorare la rappresentazione teatrale”.