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“Le Migranti”: figura, astrazione e simbolo nella mostra di Pizzi Cannella

A Roma 99 tele, ognuna con un nome e una veste femminile che riconduce a determinati contesti di provenienza geografica e appartenenza storica

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«Guardare un quadro può portare lontano, specie spettatori come me, che non riescono a regolare l’immaginazione con la bussola», osservava Antonio Tabucchi, a proposito di Senza titolo (Indiana) (1999) di Piero Pizzi Cannella, che alla valenza simbolica del ritratto di un abito femminile già allora affidava un’articolata ricchezza di suggestioni, oltre le convenzioni dell’iconografia.

L’evocazione dell’altrove, che in quella tela discendeva dall’eco orientale, sarebbe stata riconosciuta dallo scrittore ancora nel paesaggio oltre una cancellata di Lontano (2001), opera dello stesso artista, tanto da ispirargli l’argomentazione della distanza tra uomo e donna nell’omonimo racconto epistolare, contenuto nella raccolta Racconti con figure (Sellerio, 2011).

Così anche negli abiti protagonisti della mostra Le Migranti, tenutasi alle Corsie Sistine del complesso ospedaliero di Santo Spirito in Sassia fino al 3 maggio, si può cogliere il richiamo a una dimensione lontana, eppure vicina per appartenenza e umanità, circostanziata dal flusso di notizie e immagini mutuate dall’informazione quotidiana. L’installazione si compone di novantanove tele, ciascuna con un nome e una veste raffigurati sul recto, e un’epigrafe sul verso, quasi la trascrizione di un pensiero ad alta voce, che il pittore attribuisce all’uno o all’altro personaggio femminile. L’autore dichiara di averle realizzate nel 2015, «tutte di seguito», come un’urgenza creativa scaturita dall’emergenza del fenomeno migratorio, ma di avere deciso di mostrarle solo adesso, perché «dalla cronaca si è passati alla storia».

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L’atto di migrare è declinato nel tema dell’altrove, che è luogo fisico e metafisico, rappresentato dalla vita lasciata alle spalle, dallo strappo, dalla perdita, dalle incertezze e dai pericoli esplicitati nelle parole sul retro di ogni tela: «La guerra, la sveglia che suona tutte le mattine»; «Fate qualcosa»; «Non ho più latte per Zwang»; «I vecchi del villaggio sembrano sapere qualcosa che io non so»; «Spero di ritrovare Dumitra»; «Tutte le scarpe mi vanno strette, le porto lo stesso»; «Porta con te un vestito a fiori, ne avrai bisogno». E anche nella misura della distanza, secondo l’appartenenza di ciascun abito a culture e usi di paesi lontani e a donne diverse tra loro, che la materia pittorica assimila nella comune rivendicazione identitaria.

Da questo punto di vista, la precedente lettura onirica di Tabucchi, ispirata da evocazioni concettuali e assonanze estetiche, è scalzata dalla coincidenza immediata tra figura e simbolo, tra il personaggio femminile e il vestito che porta con sé, custode della sua storia. Peraltro, l’effige dell’abito, contenitore di figure di donna e contenuto di concetti e interpretazioni, è una cifra stilistica ricorrente nella pittura di Piero Pizzi Cannella. Se ne ha riscontro nelle vesti già citate di Senza titolo (Indiana) (1999), attraverso il ricorso ad antichi timbri indiani intrisi di colore; in Nottambulo (2003), in cui il tessuto bianco velato è luce contro il buio del sonno e della morte, richiamando insieme la biancheria da notte e l’apparizione di fantasmi; e infine in Le Regine (2012), dove i colori sontuosi evocano i cerimoniali di corte e l’ascensione del femminile a una dimensione superiore, fuori dal tempo e dallo spazio.

In Le Migranti (2024), invece, la connotazione dell’abito è privata e personale per ciascuno dei novantanove personaggi (Zajnab, Mabeela, Anna, Selayesh, Belquis, Kylavali, Maha, Mayte e le altre) e ne raccoglie la voce unica, esclusiva e intima, come la testimonianza del vissuto, durante il viaggio e fino all’arrivo in un nuovo paese da straniera. È «un oggetto – spiega l’artista – che fa parte della sua vita che se arriva, quando arriva, e dove arriva, avrà con lei.Mentre lo dico mi fa pensare alla fotografia che hanno in galera gli ergastolani attaccata al muro: è una cosa, una sola, che porta con sé… è il suo non dimenticare, il suo abbraccio alla vita passata, ai suoi amori passati, alla sua famiglia scomparsa. Su tutto ciò ho realizzato questa serie di dipinti, pensando che ognuna de Le Migranti abbia ammucchiato in fondo a quel sacchetto di plastica, unico suo bagaglio, l’abito più bello».

In questo senso, la scelta di colori variegati e di decorazioni tipiche riconduce a determinati contesti di provenienza geografica e appartenenza storica, che possono includere il significato rituale dell’abito, quale corredo da cerimoniale, bandiera di una nazione e trofeo di un popolo vittorioso e libero, come per gli abiti delle donne Herero in Namibia, con corpetto e gonne vaporose simili ai costumi ottocenteschi europei, indossati per testimoniare il genocidio causato dalla colonizzazione. Tuttavia, Pizzi Cannella non punta ad approfondire la singola caratterizzazione, piuttosto a conferire ai dipinti la rivendicazione unitaria dell’identità femminile, come un fatto politico e pubblico, in una sinestesia che investe tutte le donne nel viaggio attraverso la vita, e tutta l’umanità cittadina del mondo contemporaneo.

Così le tele, teatralmente sospese nello spazio come panni da bucato immobili o figurine di moda, presentano un modello stilizzato, riprodotto in varietà di tinte e rifiniture, a raccontare il rapporto essenziale tra forma e sostanza. A rafforzare ulteriormente l’aspirazione concettuale dell’installazione artistica è l’allestimento all’interno delle Corsie Sistine, realizzate nel 1475 da artisti e architetti illustri quali Andrea Bregno e Baccio Pontelli, per volontà di papa Sisto IV.

La struttura longitudinale – che papa Innocenzo III aveva ricavato dalla Schola Saxonum, l’ospizio dei pellegrini sassoni, e sotto cui sorgeva la villa di Agrippina (I d.C.) – si estende in un unico corpo di fabbrica, lungo centotrenta metri e largo dodici, e si compone di due gallerie, la Sala Lancisi e la Sala Baglivi, collegate dal tiburio a copertura ottagonale in cui risalta il ciborio di Andrea Palladio.

Il ciclo pittorico di scuola umbro-romana, affrescato nella parte alta, doveva raccontare ai degenti le origini dell’ospedale, le cure somministrate agli infermi, la disperazione delle madri per i neonati indesiderati, gli infanticidi nel Tevere, l’appello dei pescatori a papa Innocenzo III per porre rimedio a questa pratica, l’istituzione della ruota degli esposti, tuttora visibile a sinistra dell’ingresso, gli omaggi dei sovrani stranieri, gli episodi più rappresentativi della vita di papa Sisto IV, le cerimonie religiose celebrate dai due pontefici.

Tra la finalità originaria dell’edificio e la narrazione artistica di Pizzi Cannella si instaura dunque un dialogo naturale, in cui il viaggio incontra la destinazione; e la vocazione di accoglienza della donna – interprete di istanze familiari e sociali, e madre soprattutto – risulta amplificata dalla caratterizzazione del luogo nei secoli, guidando le Migranti dentro la Storia.

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Petula Brafa
Petula Brafa
Pubblicista, laurea in Lettere e tesi sulla scrittrice Alba De Cespedes, e romana dal primo amore per le sue pagine nelle vie del quartiere Prati, maturato nell'andirivieni tra Roma, Catania e un borgo di mare ragusano. Ho collaborato negli anni con giornali e blog, agenzie di servizi editoriali e riviste letterarie. Credo nella letteratura e nella conoscenza umanistica, nel potere della parola e delle parole.
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