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Elliott Erwitt, la grazia e la bellezza di raccontare la vita in bianco e nero

Uno dei più grandi fotografi di tutti i tempi, è scomparso di recente. Lasciando opere che ritraggono personalità, momenti e città, come Roma

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Avrebbe voluto che a scattargli una foto per la quarta di copertina fosse stato lui, mentre nel 2016 progettava un libro di immagini raccolte a Cuba. «Henri Cartier-Bresson. Ma non è facile, visto che non c’è più: è in Paradiso, assieme a tantissimi altri amici fotografi». Ed è lì che li ha raggiunti Elliott Erwitt (Parigi, 26 luglio 1928 – New York, 30 novembre 2023), lasciando in eredità la lezione sull’efficacia del bianco e nero nel catturare le emozioni, e sul tempo dello scatto («È come pescare, a volte ne prendi uno. Aspetti che accada qualcosa, a volte succede, a volte no»), alchimia tra istinto e fortuna, realtà e ironia, in un ricchissimo repertorio iconografico.

I genitori russi, emigrati a Parigi, ne legarono l’infanzia all’Italia, imponendogli il nome di Elio Romano. «Mio padre aveva fatto l’università a Roma ed era molto legato all’Italia. Benché io sia nato a Parigi, sono arrivato in Italia quando avevo solo due mesi e ci sono stato fino ai miei dieci anni. Abitavamo a Milano». Così avrebbe spiegato, nella stessa intervista nel 2016, precisando di ritornare spesso a Verona. La sua produzione racconta anche della presenza a Roma, tra i numerosi luoghi di viaggio, e degli scatti che della Città Eterna conservano parte del Novecento e del nuovo secolo fino alla primavera del 2009, anno della rassegna “Roma. Fotografie di Elliott Erwitt” a Palazzo Braschi.

La mostra era a cura di Alessandra Mauro, docente di teoria e storia della fotografia e direttrice editoriale della casa editrice Contrasto, realizzata in quell’anno dal Comune di Roma e dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali. Spaziando dalle immagini di quattro pontefici (Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI) alla contemporaneità. Il bianco e nero e l’obiettivo del fotografo restituiscono sezioni temporali della città di grande intensità: così è per gli scatti di uomini e religiosi in luoghi più e meno monumentali (1955), di uomini e cani, suoi animali prediletti (1978), per la serie di chiese e tetti del centro storico (1978), per gli interni del Pantheon, moltiplicati nell’apertura spaziale del colonnato sulla piazza e in un autoscatto, nel vortice ottico irradiato dall’oculo della cupola (2004).

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Roma, 1978

E ancora: per il ritratto del vigile, che dirige il traffico come un maestro d’orchestra ed esibisce la mano nel guanto bianco, a contrasto con il manifesto cinematografico alle sue spalle e il primo piano della mano di una celebrità, che si sottrae allo scatto di un paparazzo (2004); per la maestà moderna dell’Auditorium Parco della Musica (2008) e per il ventaglio di emozioni – di turisti, innamorati, spettatori pigri a godersi da sdraiati il sole – condivise con ironia nella bellezza di Roma, dal belvedere del Giardino degli Aranci (2008).

Ma l’attenzione all’Italia è solo un frammento della vastissima opera di Erwitt, instancabile viaggiatore tra i continenti, testimone di grandi avvenimenti e autore di ritratti di personaggi storici del XX secolo: da Jacqueline Kennedy in lacrime al funerale del marito JFK a Grace Kelly alla festa di fidanzamento con il principe Ranieri, e poi Che Guevara, Fidel Castro, Marlene Dietrich, Marylin Monroe nell’intervallo sul set e moltissimi altri, dei quali coglie l’umanità, la malinconia, la tenerezza, il divertimento.

A questi e ad altri scatti celebri rendeva omaggio nel 2020 anche la retrospettiva romana “Elliott Erwitt Icons”, a cura di Biba Giachetti, fotografa e fondatrice dell’agenzia Sudest57, all’hub culturale Wegil di Trastevere, raccontandone la sensibilità umanistica e l’ironia benevola, caratteristiche dello spirito di Magnum, l’agenzia fotografica fondata a Parigi nel 1947 da Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, David Seymour e George Rodger. Furono infatti la sua sensibilità e l’esercizio dello sguardo già negli anni Quaranta, quando lavorava tra New York e Los Angeles, a segnalarlo all’attenzione dello stesso Capa, suo mentore insieme a Edward Steichen e Roy Stryker.

Da allora, Erwitt vive l’ascesa della sua carriera di fotografo professionista. Nel 1949 torna in Europa e continua a lavorare per varie pubblicazioni ancora nel 1951, quando Robert Capa lo invita a fare parte di Magnum dove, chiamato nello stesso anno dall’esercito americano, entrerà solo dopo il congedo, nel 1953, diventandone membro e poi presidente, nel 1968, per ben tre mandati. «Capa, che aveva un tipo di fotografia diversissimo da quello di Elliott e ha raccontato tante guerre, aveva un’attenzione al fattore umano molto forte e credo che questo lo abbia messo in sintonia con lo sguardo partecipato, sempre anche calmo, anche ironico, ma ironico affettuoso di Elliott Erwitt», ha detto Alessandra Mauro, intervistata dal programma radiofonico Alphaville per Rsi, alla notizia della scomparsa.

«Raccontare la vita, con l’ironia celata dietro ai momenti di tutti i giorni, è anche grazia e bellezza, e non c’è niente di più difficile che raccontare tutto questo in un’immagine». E di questo racconto Erwitt è stato autore e interprete eccellente, offrendo allo spettatore l’immediatezza del “non detto”.

Come l’invitato dallo sguardo maligno contro gli sposi in Bratsk, Siberia (1967), il bambino afroamericano con la pistola in Pennsylvania, Pittsburgh (1950), il sacerdote ortodosso dinanzi alla nudità di una statua classica in Greece (1963); il romanticismo dell’istante eterno in California Kiss (1955); l’ironia delle foto antropomorfe con protagonisti gli amatissimi cani, come in New York (2000).

E infine il surrealismo degli accostamenti concettuali tra azioni umane isolate, come l’anziana che gioca alla slot machine a forma di cow boy in Nevada, Las Vegas (1954), il cartellone pubblicitario a fianco del crocifisso in Valdes Peninsula, Argentina (2001). O azioni condivise, come il raffronto tra i sette uomini dinanzi a Maja desnuda e l’unica donna per Maja vestida, opere di Goya, in Prado Museum, Madrid (1995), o come il profilo della bimba dietro le antiche sculture egiziane in New York, Metropolitan Museum of Art (1988), nascosta alla vista, con l’aspetto evocativo di una divinità arcaica.

Oltre a libri, saggi giornalistici, illustrazioni e campagne pubblicitarie, Elliott Erwitt ha realizzato film documentari – Beauty Knows No Pain (1971), Red White and Blue Grass (1973), The Glass Maker of Herat (1997) -, prodotto diciassette commedie satiriche per la televisione per Hbo e presentato le proprie opere nelle più prestigiose sedi internazionali americane, europee e asiatiche. Celebrato come uno dei più grandi fotografi di tutti i tempi, ha consegnato il privilegio del racconto delle emozioni ai suoi scatti, riconoscendo l’istante «quando tutti gli elementi di una buona fotografia si presentano nello stesso momento: la composizione, il contenuto, l’atmosfera, un momento speciale. Di certo si può essere facilmente ingannati e, molto spesso, quello che sembra essere “l’attimo giusto” non lo è per niente. Alla fine, la fortuna e l’istinto sono le cose più importanti».

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Petula Brafa
Petula Brafa
Pubblicista, laurea in Lettere e tesi sulla scrittrice Alba De Cespedes, e romana dal primo amore per le sue pagine nelle vie del quartiere Prati, maturato nell'andirivieni tra Roma, Catania e un borgo di mare ragusano. Ho collaborato negli anni con giornali e blog, agenzie di servizi editoriali e riviste letterarie. Credo nella letteratura e nella conoscenza umanistica, nel potere della parola e delle parole.
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