Un insieme di errori o un eccesso di sicurezza dato da una consuetudine instaurata che, ancora una volta, sono costati davvero cari, con una concatenazione di responsabilità o sottovalutazioni che purtroppo coinvolgono tutti. Come i dati ci dicono che accade nella maggior parte dei casi, quando l’errore o la sottovalutazione rendono inutili anche le garanzie date dalla tecnologia. È quello che appare, in attesa dell’accertamento dell’effettiva dinamica dei fatti da parte della magistratura, dopo le ultime novità emerse sul tragico incidente di Brandizzo, dove sono morti cinque lavoratori addetti alla manutenzione della rete ferroviaria, travolti da un treno.
Il video diffuso in questi giorni, recuperato dal telefono di Kevin Laganà, una delle vittime, conferma purtroppo quello che in qualità di giurista di impresa ho visto accadere molte volte in questi anni: la sicurezza sul lavoro è un problema molto sottovalutato in primis da chi la vita la rischia. Ogni sei minuti nel mondo muoiono 25 persone in incidenti sul lavoro, ogni ora in Africa e Asia muoiono 13 bambini circa. In Italia ci sono 4 morti sul lavoro al giorno, più di 100 al mese, 1.394 all’anno. I costi di questa strage planetaria ammontano a 1.251 miliardi di dollari, pari al 4 per cento del Pil mondiale, una cifra 20 volte superiore ai fondi stanziati per lo sviluppo. Senza considerare il valore incalcolabile delle vite umane perse e delle famiglie spezzate.
Parlando in questi giorni con persone interne a Rfi, mi veniva confermato che la sicurezza in quell’azienda è veramente ai massimi livelli. Ma, si aggiungeva, ci sono due grossi problemi. Uno è che le molteplici procedure, per garantire la sicurezza, portano a diminuire lo spazio di lavoro (come tempo), ma questo è gestibile. L’altro, brutto a dirsi, citando testualmente le parole ascoltate da un tecnico, è «che il 99,9% degli incidenti – in Rfi – è dovuto all’errore umano e qualsiasi tecnologia non può eliminarlo».
«Entrando nel merito – dice la nostra fonte – la troppa confidenza o la ripetitività delle lavorazioni abbassano l’attenzione o il rispetto delle procedure. In questo caso, “abituati” che l’ultimo treno passa ad una certa ora, hanno iniziato a lavorare senza aspettare l’autorizzazione. Purtroppo, essendoci la linea Torino-Genova interrotta, hanno deviato un treno sulla Milano-Torino e per loro è stato fatale».
Una ulteriore valutazione riguarda inoltre il fatto che, pur sapendo di lavorare senza l’interruzione della circolazione treni, i lavoratori non si sono protetti. Mi è stato spiegato infatti da esperti di Rfi che ci sono modi per occupare il binario e evitare che il segnale sia verde. E neppure tra Dirigente movimento e il collega che doveva ricevere il modulo per iniziare i lavori si sono messi “in sicurezza”, banalmente fermando il treno a Chivasso se non si era certi che il binario fosse libero.
C’è poi un altro tema che fa specie nessuno abbia ancora rilevato, ovvero il fatto che tanto il filmato di Laganà quanto la foto postata su Instagram da Michael Zanera dimostrano con quanta leggerezza in certi ambienti vengano svolte mansioni pericolose. Oltre ai profili di violazione dei doveri di un lavoratore che utilizza i social network durante l’orario di lavoro, punto sul quale tanto lo Statuto dei lavoratori quanto (più volte) la Cassazione si sono espressi (da ultimo, la sentenza 3.133/2019 ha ritenuto legittimo il licenziamento per chi usa i social network durante l’orario di lavoro), ci sono le palesi evidenze, riportate sopratutto dal filmato che, contrariamente a quanto hanno detto in molti, a parere di chi scrive non vanno ad accusare i superstiti ma bensì, ahinoi, sono una postuma ammissione di colpa da parte delle vittime.
Evincere con quanta leggerezza certe mansioni pericolose nella sostanza (nessuno può pensare che lavorare sui binari di un treno non lo sia) vengano svolte dagli addetti ai lavori, venire a conoscenza che fosse una prassi lavorare e poi spostarsi quando una “vedetta” gridava «Treno!», è un qualcosa che addolora e lascia sconcertati, specie dopo fatti tragici come questi. Se poi si unisce l’uso dei social network nello svolgimento delle mansioni (e non c’è nessuno che possa negare l’abbassamento della soglia di attenzione durante l’uso dei nostri dispositivi) bisogna ammettere che il mix è davvero letale.
Il tema delle morti bianche è da sempre al centro della discussione quando si parla di lavoro, ma come abbiamo già avuto modo di dire forse la locuzione non è la più corretta perché troppe volte di “bianco”, cioè di incolpevole, non c’è nessuno. Le morti sul lavoro infatti, salvo i casi imprevedibili, spesso sono evitabili. E questo ultimo fatto di cronaca ce lo conferma.
Perché rispettare la vita e la morte di chi non c’è più è una cosa, ma appurare le responsabilità di ciascuno, senza addossare tutta la colpa ai sopravvissuti, è un dovere civile e giuridico a cui tutti siamo chiamati.