Ne sono passati di anni da quando Carlo Mazzone ha varcato per la prima volta l’entrata di un polveroso campo di calcio in veste di allenatore. Era il 1969, c’era la guerra in Vietnam, l’Italia era ancora tutta in bianco e nero e lui allenava i bianconeri dell’Ascoli. Una città e due colori dai quali non si è mai più staccato, fino a questo ultimo agosto della sua vita.
Ascoli lo ha accolto come una seconda casa, quella degli affetti, ma Roma era la sua città; romano lo è sempre stato, non solo all’anagrafe. Con quel suo modo di fare si è fatto ambasciatore involontario di una romanità bonaria che nel calcio era spesso malvista. La sincerità e la trasparenza prima di tutto, quindi, a costo di essere scomodi «per i grandi signori del calcio italiano», come li chiamava lui.
Nei campionati italiani ha collezionato 1.278 panchine, record assoluto per un allenatore. Ma questi sono solo numeri. Non ha mai vinto scudetti o coppe ma è comunque riuscito ad entrare nel cuore di tutta Italia, ancor prima di entrare nelle case degli italiani grazie ad alcune sue uscite televisive memorabili, comiche sì, ma senza filtri o sovrastrutture. Qualcosa che sta velocemente scomparendo nel mondo del calcio e non solo.
Ed è stata propria questa la forza di Mazzone, quella che lo ha avvicinato al grande pubblico e lo ha reso la figura calcistica più nazionalpopolare d’Italia. Un Paese, il nostro, che di queste figure ha sempre avuto bisogno per mettersi allo specchio e riflettere sia su quello che vorremmo essere sia su quello che in realtà siamo.
Ecco che, quando si parla di “sor Carletto” Mazzone, le statistiche, i tecnicismi e i discorsi da bar vengono messi in secondo piano. Le sue arrabbiature, le sue corse o le sue battute fulminanti, come quelle del romano di una volta, conquistano un coefficiente di importanza maggiore di quello di uno scudetto. Altrimenti tutta Italia non avrebbe mostrato così tanto affetto nei confronti di un allenatore non vincente sul campo. Lui, infatti, è sempre stato un vincente nella vita.
La sua minacciosa corsa verso la curva dell’Atalanta in un derby col Brescia di inizio millennio rimarrà scalfita nella mente di tutti gli appassionati. «Se famo 3 a 3 vengo sotto la curva»: questo il suo avvertimento ai tifosi della Dea dopo continui insulti a lui rivolti. Poi, ecco la rimonta: il suo Brescia pareggia dopo essere stato sotto di due gol grazie all’ennesima prestazione sontuosa di Roberto Baggio, e la minaccia si trasforma in realtà. Qualcuno prova a tenerlo, ma nessuno riesce ad arginare un metro e novanta di romanità sanguigna ed il resto è storia impressa su video.
«Ora pagherò quel che devo, ma qualsiasi siano i giudizi su di me domani, me ne sbatto. È stata offesa la mia città e la mia infanzia: i bergamaschi si devono sciacquare la bocca prima di parlare di Roma».
L’affetto dei giocatori che lo hanno avuto come allenatore si può toccare con mano in questi giorni, dopo la sua scomparsa. Tanti i messaggi di cordoglio, a partire proprio da quello di Pep Guardiola e Roberto Baggio, con i quali condivideva un profondo rapporto di stima e amicizia, e di Francesco Totti, che lo ha definito «un padre». Infatti, proprio da questo appellativo nasce il documentario del 2022 Come un padre, che raccoglie tutte le testimonianze e gli episodi della lunghissima carriera del tecnico.
Nel docu-film viene riportata una sua frase che più di tutte è un inno al vecchio modo di essere romano: uno stile di vita fatto di scanzonata leggerezza, senza l’ansia della corsa al risultato ed ormai tristemente in via di estinzione. «Nun amo vinto gnente, però ammazza le risate che se semo fatti». Semplicemente Carlo Mazzone.