Una parabola che termina laddove era iniziata. Un cerchio che si chiude, facendo simbolicamente calare i battenti su una fase storica della politica. Quella politica per cui il cittadino non era un follower, il consenso non si misurava in like. Quella politica nata e vissuta nelle sezioni, nei dibattiti nella piazza del paese, nelle questioni di vita delle persone discusse occhi negli occhi al bar tra un caffè e una sigaretta. Quella politica i cui leader venivano dai territori di provincia e vi continuavano a vivere. Quella politica di cui Bruno Astorre era uno degli ultimi testimoni e uno dei più acuti interpreti.
Tutto si è chiuso con l’ultimo saluto nel paese dove è iniziato il percorso umano e dov’è nata la passione per la politica, la sua Colonna. Troppo piccolo il borgo, fatto di case abbarbicate su uno sperone di roccia come fiori dai mille colori, ai confini dei Castelli Romani con la Capitale; troppo grandi l’affetto di amici d’infanzia e compagni di lotte e il rispetto degli avversari per ospitarli tutti. E allora la cerimonia funebre del senatore e segretario regionale del Lazio del Partito democratico scomparso inaspettatamente giorni fa si svolge nel campo sportivo comunale, nel giorno che segna la vigilia di quello che sarebbe stato il suo 60° compleanno.
Scelta necessaria, quella dello stadio comunale a Colonna, per una partecipazione tanto numerosa quanto grande è lo sconvolgimento di tutti per la imprevedibile mancanza. E una scelta divenuta simbolica allo sguardo dell’osservatore: un prato come fosse una livella sociale, dove mescolati a occhi lucidi anonimi di comuni cittadini si notano, quasi a fatica, volti noti di parlamentari, consiglieri regionali, amministratori di ieri e di oggi, politici dal passato glorioso e giovani debuttanti.
Ci avrebbe ricavato una delle sue famose battute in dialetto, Bruno, nel vedere sparpagliati in quella variopinta platea i suoi colleghi. Magari pungolandoli per aver avuto, lui, il merito di averli fatti allontanare dai social e dai salotti televisivi. Per fermarsi insieme a quelle persone che lui, ancora oggi, incontrava al bar come un tempo.
Dal palco, dopo la celebrazione liturgica, le voci di chi ricorda episodi e una passione politica nata fra giovani democristiani che volevano cambiare il mondo, in nome di un ideale. Su tutte, la voce di Francesca. Per una volta citata solo con il nome, senza riferimenti al ruolo istituzionale di Francesca Sbardella come sindaca di Frascati: appare un superfluo dettaglio, quest’ultimo, di fronte al molto breve ma intenso periodo che ha potuto vivere da moglie. Destinata per questo a portare dentro si sé, più di ogni altro, il peso di non aver potuto capire il male di vivere che si celava nei meandri dell’animo e della mente e che ha portato alla fine della parabola terrena di Bruno.
Forse è questo l’ultimo insegnamento che Bruno ha voluto lasciare: oggi, nessuno si sente più solo e fuori dal tempo di chi vive intensamente in ogni momento della giornata la Politica (la maiuscola non è casuale) come ascolto attento e incontro con chi essa deve rappresentare: le persone. Come si imparava a fare nelle sezioni, prima che i social prendessero il sopravvento sulle piazze e sui bar.
Oggi la politica (la minuscola non è casuale) è un tritacarne mediatico che macina e dimentica in fretta idee e persone, che non ha tempo per la piazza ed il bar. E non ne ha, quindi, per ascoltare quella multicolore platea che ha invaso lo stadio di Colonna.
Dimentica in fretta, oggi, la politica. Come dal palco (emozione di fronte alla numerosa platea?) il parroco dimentica il nome della giovane moglie Francesca nell’elenco dei cari a cui dedicare una parola di conforto. Eppure nessuno, ora, ha bisogno del sostegno e della protezione della memoria collettiva più di lei.
«Mi hai aiutato a crescere, a smussare gli spigoli del mio carattere», dice dal palco al suo Bruno. Cos’altro è l’amore se non fare delle differenze un arricchimento reciproco attraverso il dialogo? E cos’altro è la Politica se non dialogo?