Così grande da essere chiamato anche Mare, uno dei quattro laghi più grandi del mondo è ormai quasi un ricordo: in poco più di cinquant’anni le sue acque sono quasi completamente scomparse. Simbolo di una catastrofe ecologica, il lago d’Aral è un lago salato di origine oceanica situato al confine tra Uzbekistan e Kazakistan e, con una superficie totale di 68mila chilometri quadrati totali, era tra i laghi più grandi del mondo.
Dagli inizi degli anni Sessanta ad oggi la sua superficie si è ridotta del 75%. Al suo posto resta un luogo impressionante: un lago circondato da un deserto, salato e bianco come la neve, con il fondo coperto di conchiglie. La catastrofe ha avuto inizio durante il periodo della guerra fredda, quando il regime sovietico mise in atto un progetto che prevedeva di deviare il corso di due fiumi che si immettevano nel lago per poter irrigare i campi delle nuove coltivazioni intensive di cotone predisposte nella vicina area arida dell’Uzbekistan.
La sensibile riduzione della portata di immissione di acqua, associata alla naturale evaporazione, ha condannato il lago ad un implacabile prosciugamento. Ma al peggio non c’è mai fine: l’uso smodato di diserbanti per far posto alle piantagioni ha inquinato il terreno circostante, causando la contaminazione delle acque dell’Aral. Poiché il lago non ha emissari, i veleni si sono accumulati sul suo fondo in modo incontrastabile creando un deserto di sabbia salata e tossica.
Le conseguenze ambientali sono di portata spaventosa: l’intera area ha subito un grave cambiamento climatico. La presenza dell’acqua mitigava il clima torrido; la sua drammatica diminuzione determina una veloce evaporazione di quella rimasta che comporta una forte escursione termica, con temperature fino a -35°C d’inverno e 50°C d’estate. Soprattutto, un crescente inaridimento di tutta l’area oltre ad un aumento della salinità, circa 50 grammi per litro, che ha reso l’acqua non potabile.
A causa delle violente tempeste di sabbia, le polveri inquinate raggiungono zone distanti anche centinaia di chilometri, rendendo sterile e inquinata la terra su cui si depositano. La coltivazione del cotone occupa ormai un numero di lavoratori molto superiore a quelli che un tempo erano impiegati nella pesca diventando la principale risorsa economica dell’Uzbekistan. I terreni prosciugati hanno svelato di essere molto ricchi di giacimenti di gas naturale, che hanno permesso importanti accordi per lo sfruttamento del sottosuolo: sempre e solo profitto, mi raccomando, anche a costo di gravissime conseguenze per l’ambiente e per la popolazione.
L’impatto sociale più sconvolgente è l’elevato tasso di lavoro minorile impiegato nelle piantagioni: a fronte di paghe irrisorie, migliaia di bambini a partire dai 7 anni abbandonano la scuola per lavorare nei campi. Gravi conseguenze sanitarie sono l’altissima incidenza di casi di tubercolosi e di cancro alla gola che colpiscono la popolazione a causa dell’inquinamento dell’aria: almeno tre volte superiori alla media del Paese.
Altra storia è quella che riguarda alcune città che si estendevano sulle sponde del lago, diventate meta di un turismo tetro e doloroso, luoghi descritti come “il cimitero delle navi”, dove si osservano i relitti arenati di imbarcazioni da pesca e da trasporto arrugginite che sembrano piombate dal nulla nel mezzo di un deserto.
È scioccante rileggere oggi le dichiarazioni dei responsabili del progetto e notare come, a coloro che già sottolineavano le conseguenze catastrofiche di un piano del genere, venne risposto che lo scopo era proprio quello di «far morire serenamente il lago d’Aral» e che il lago era, testualmente, «un errore della natura» che andava corretto, un enorme spreco di risorse idriche utili all’agricoltura.
Alla fine degli anni Ottanta, il lago risultava diviso in due parti distinte: a sud il Grande Aral e a nord il Piccolo Aral. Alcuni progetti sono stati avviati per reindirizzare nel Piccolo Aral parte del flusso dei fiumi attraverso un sistema di dighe e canali. Nel 2005 si sono conclusi i lavori di realizzazione della diga chiamata Kokaral che ha isolato completamente nella parte sud il Piccolo Aral.
Questa fa parte di un progetto che punta alla riqualificazione della parte Kazaka del lago e i risultati non sono tardati ad arrivare: superficie e profondità sono notevolmente aumentati in breve tempo permettendo il rilancio delle attività di pesca, che hanno giovato della reintroduzione di alcune specie e, inoltre, le acque sono risultate abbastanza pulite da poter essere potabilizzate. Anche la salinità è tornata nei parametri simili a quelli precedenti il disastro.
Di diverso parere le valutazioni del governo dell’Uzbekistan, che ritiene lo stato delle cose completamente compromesso. Propone, come unica soluzione possibile, un progetto che prevede il rimboschimento del deserto creato dal lago prosciugato con la piantumazione di un arbusto noto con il nome di “albero del sale”, appartenente alle specie del genere Haloxylon, in grado di vivere in ambienti aridi e dalla elevata salinità. L’obiettivo è di ridurre la velocità del vento al suolo, cosa che limiterebbe la quantità di polveri trasportate.
La triste storia del lago d’Aral è solo uno dei tanti esempi possibili di devastazioni naturali attuate per l’interesse umano. Ma, in questa vicenda, quello che impressiona maggiormente è la consapevolezza di chi la ha progettata: fredda e lucida distruzione ambientale motivata dall’incremento agricolo. Non siamo i padroni del mondo e della natura: lo siamo solo parte!